Punto e a capo
Punto e a capo
(in attesa di vedere qualche segnale positivo cui aggrapparmi)
Intervento alla direzione provinciale del PD
(di seguito, gli appunti del mio intervento alla direzione provinciale PD del 23 giugno 2014, subito dopo la relazione del segretario Massimo Bettin. A futura memoria…)
Parlo subito: e so che parlerò in dissenso rispetto non solo alla relazione presentata, ma anche alla maggioranza dei presenti e di chi interverrà.
Non ho niente contro Massimo, né contro la sua relazione, in specifico.
Non ci sono cose su cui dissento: dissento sull’impianto complessivo. Ma è una cosa che va molto oltre il suo intervento e la sua volontà, e che non riguarda solo l’ambito provinciale, ma anche quello cittadino.
In questi giorni, dopo la sconfitta, pur senza avere alcun mandato da parte di nessuno, mi sono attivato per incontrare molti rappresentanti e dirigenti del partito – in particolare tra coloro che hanno sensibilità diverse dalla mia e, in concreto, si riconoscono in altre aree – e anche personalità fuori ma vicine ad esso, per cercare di delineare una prospettiva diversa da quella che si andava profilando, e che poi è risultata, come sempre, maggioritaria. Senza successo, come si sarà capito.
Comincio a dire qui le cose che non mi è stato possibile dire sabato, alla riunione del cittadino. Una riunione sbagliata, per come è stata concepita. Perché si è avuta fretta di decidere, in modo che nessuno rimettesse in discussione gli equilibri e soprattutto gli organismi. Che era precisamente ciò che io, invece, penso si sarebbe dovuto fare.
Dirò delle cose anche antipatiche, ma costruttive.
Parlerò come militante di base, come persona senza incarichi di rilievo. E come sociologo, visto che questo è il mio mestiere, e questo è forse uno sguardo che manca alle nostre valutazioni: quello esterno, quello ‘visto da fuori’.
E parlo a titolo personale: certamente non di un’area, quella ‘renziana’ cui sono normalmente ascritto. Di avere sostenuto Renzi, e capito che lì era il futuro, fin dall’inizio, fino da quando con pochi altri l’ho invitato a parlare nel mio dipartimento come fenomeno politico innovativo in sé, quando ancora eravamo lontani anche solo dall’immaginare la rapida scalata che l’avrebbe portato ai vertici del partito e del paese, mi faccio vanto volentieri: sì, io e pochi altri l’avevamo capito. Ma la cosiddetta area renziana, in questa città, ha dimostrato di essere tanto presente nel nostro elettorato quanto assente tra chi fa politica attiva o crede di farla: per problemi di coesione, e direi persino di intelligenza politica, prima ancora che di leadership. Per cui ho deciso che seguirò l’invito dello stesso Renzi, di rottamare in primo luogo la corrente renziana: dichiaro oggi, in pubblico, che d’ora in poi non parteciperò più a nessuna riunione di corrente, di qualsiasi corrente. Spero, senza esserne per nulla sicuro, visto il passato, che così facciano non solo altri renziani, ma proprio tutti: tutti quelli che in questo partito hanno agito e agiscono come corrente. Molti. Troppi. Molti tra quelli che l’hanno portato alla sconfitta, tra gli altri. Ecco, se altri continueranno a farlo sarà loro scelta e loro responsabilità: io mi sfilo, mi ritiro da questa prassi.
Parto dalla delusione per come si è svolta la riunione di sabato, al cittadino. Ai miei occhi è stata una triste farsa. Poi spiegherò perché, nei contenuti. Ma l’errore principale è stato nel convocare gli iscritti, per poi non farli parlare, dimostrando di essere ancora una volta il partito degli eletti e degli organismi dirigenti, non degli iscritti e men che meno degli elettori. Un grosso e grossolano errore: se c’è qualcuno che ha diritto di parola, in questo momento, sono proprio loro, gli iscritti, i militanti. L’altro errore, volutamente collegato al primo, è stato di avere avuto troppa fretta nel votare una mozione di taglio ‘garantista’ (e garantita anche dalla presenza del rappresentante regionale e nazionale): nel senso che garantisce gli assetti dati e gli equilibri acquisiti, pur di non mettere in questione niente di sostanziale. Esattamente l’opposto di ciò che a mio parere si sarebbe dovuto fare. Ma questo partito non brilla per iniziativa, diciamo così: e ancora meno per capacità di mettersi in discussione. E nemmeno per capacità di ascolto, del proprio elettorato e della propria base: prima si decide, poi, magari, un’altra volta, se c’è tempo, si ascoltano anche gli iscritti. Bell’esempio davvero. E poi ci si lamenta se gli iscritti, e anche i dirigenti, si sfogano su facebook…: ma dove lo trovano, un altro luogo di discussione?
Molto di quello che avevo da dire l’ho scritto nei miei articoli sul “Mattino” e nello scambio di idee che ho avuto con Piero Ruzzante: la sua intervista, la mia lettera aperta in risposta alla medesima, la sua risposta, la mia risposta alla sua risposta… Poi spero che continueremo di persona. Gli interessati e gli appassionati del genere, se vorranno, troveranno tutto, articoli e corrispondenza virtuale, sul mio sito (in particolare qui http://www.stefanoallievi.it/2014/06/caro-piero-ti-scrivo%E2%80%A6-lettera-aperta-a-piero-ruzzante/ e negli articoli che precedono). Qui aggiungo alcune considerazioni. Meno di analisi, forse, avendo già detto quasi tutto quello che volevo dire in queste occasioni. Ma di proposta, e un po’ anche di protesta.
La faccio breve, quanto all’analisi. Abbiamo vissuto anni di cambiamenti sociali, economici e culturali giganteschi. Ma il modello organizzativo del partito, a Padova, è rimasto uguale a se stesso. Tanto che alle nostre riunioni troviamo sempre le stesse facce (solo, un po’ meno, perché molti se ne sono già andati, delusi), e dello stesso tipo: un genere prevalente, quasi solo una generazione, quasi solo un settore professionale (persone che dipendono da fondi pubblici, e relative garanzie: pensionati e pubblico impiego). E una noia mortale, e la sensazione di perdere tempo.
I rapporti con la società e gli altri settori economici e sociali sono quasi inesistenti. Che si tratti degli imprenditori, delle professioni liberali, dell’università, delle nuove partite Iva poco garantite, dei sindacati che non siano la Cgil (persino su questo si sono fatti giganteschi passi indietro, sintomo di una chiusura interna drammatica: vent’anni fa si facevano iniziative unitarie, oggi solo con il sindacato collegato alla corrente localmente maggioritaria nel partito).
Ce li aveva di più l’amministrazione, i rapporti con alcuni di questi mondi professionali (e non abbastanza, come si è visto), ma non il partito, ed è drammatico.
E, guardate, nei circoli non è molto diverso. Per cui se si vuole ripartire dai circoli, che pure è giusto coinvolgere, non si va da nessuna parte, se si pensa di trovare lì il mondo che negli organismi di partito non c’è.
La società è fuori. L’economia è fuori. La cultura è fuori. Il mondo è là fuori.
Dentro il partito c’è n’è pochissimo, di mondo: e, mi dispiace dirlo, quello che c’è non è nemmeno necessariamente la sua parte migliore.
Il ricambio è positivo per la democrazia. Lo insegnavano già i classici della politologia.
O glielo si da’ da dentro, o gli elettori se lo prendono da fuori.
Noi non gliel’abbiamo dato. E gli elettori se lo sono preso altrove, puntando su un ricambio radicale.
E’ ingeneroso puntare il dito sul candidato sindaco. Lo sappiamo tutti: il partito aveva sondato e commissionato sondaggi per verificare la popolarità e le potenzialità di altri possibili candidati, che ora protestano le loro verità. Con qualunque altro di loro, sarebbe andata molto peggio. E’ per quello che è stato scelto Ivo Rossi. Che era quindi il candidato migliore nelle condizioni date. Colpa nostra se non ne avevamo altri.
Sul risultato, si è già detto tutto: mi basta un dato. Quei 16 punti percentuali mancanti tra il voto dei cittadini padovani alle europee e il voto dei cittadini padovani in città: quelli che abbiamo costretto, con il nostro comportamento, con il nostro non cambiamento, a non votarci.
Guardate, stanno venendo tutti verso il PD, da Sel e da Scelta civica e da altrove. Ma entrano nel partito nazionale, che è cambiato, non nel nostro. A Padova no, non sono venuti: né gli eletti, che hanno trattato ad altri livelli il loro ingresso, né tanto meno gli elettori. A occhio, direi che c’è un motivo.
E non è solo questo: credo che il 5-10% ci abbia votato comunque, ma per disperazione, non per convinzione. Perché comunque l’alternativa era indigeribile per molto nostro elettorato.
Ma non è tutto. C’è stato anche un forte astensionismo di sinistra e progressista, al ballottaggio. Gente che non se l’è sentita di votare Bitonci, ma nemmeno di confermare il nostro piccolo politburo. E non hanno votato. Hanno lasciato che i barbari occupassero il palazzo. Sperando che anche così, almeno così, si inaugurasse il cambiamento, la svolta che prospettavano e speravano per la città. Anche questi erano nostri elettori, che abbiamo costretto a non votarci. E’ nostra responsabilità. Abbiamo combattuto contro il nostro elettorato, prima ancora che contro l’avversario: e abbiamo, molto giustamente, perso.
Perché il PD nazionale ha cambiato leadership, stile politico e linea politica, contenuti. Il PD padovano è sempre uguale a se stesso: un po’ di cosmesi di genere o generazionale, ma sotto la stessa faccia, e le stesse logiche.
Perché è successo questo? E’ un problema che viene da lontano.
Non è responsabilità di uno, ma neanche di nessuno.
E’ il problema di un passato che ha prodotto ed è il prodotto di un modello di partito chiuso in se stesso, che non ascolta, che non ha relazioni con la città. Perché in passato non ne aveva bisogno, si vinceva lo stesso: o forse, semplicemente, in passato ne aveva un po’ di più. Dopo, per troppo tempo, non le ha coltivate. Dando l’impressione di essere un partito arrogante, che non ha bisogno di ascoltare perché tanto sa già tutto. Per troppi anni.
Un modello di partito rimasto al ‘900. In cui, per dirla con Umberto Contarello, che da padovano trapiantato in altra aria ha scritto cose molto acute su questo risultato, “c’è ancora gente che crede che una sillaba sia astratta e un mattone sia concreto”.
Un partito dove si va avanti per fedeltà anziché per merito, e alcuni (fossero anche pochissimi, sempre troppi) giovani vengono tolti all’università per fare vita di partito anziché il contrario, producendo politici di professione che dovranno mendicare un posto in un ente o in una partecipata, altro che politici a tempo che poi tornano al proprio lavoro. Tutto l’opposto di ciò di cui ci sarebbe bisogno.
Un partito che ritiene che far girare salsicce e costicine è importante, e far girare idee molto meno, anzi è malvisto, perché da’ fastidio al manovratore.
Non ho niente contro le feste. Che sono utili, che frequento, che mi piacciono.
Ma da quando facciamo più feste prendiamo meno voti: una riflessione ce la farei. So che non c’è un rapporto di causalità tra le due cose, ma ragionerei almeno sull’efficacia, sul rapporto tra investimenti e risultati. Siamo sicuri che è proprio lì, il futuro? E’ per questo che il PD nazionale vince?
Non voglio una resa dei conti. Se non in senso letterale: vedere se tornano
(e, a proposito di conti. Durante la riunione del cittadino è successa una cosa gravissima: la tesoriera del partito, Ilaria De Santis, si è dimessa con una caustica lettera, denunciando di non essere stata messa in condizione di fare il suo lavoro, perché non ha avuto accesso a nulla. Nessuno ha fiatato. La cosa è caduta nel nulla. Ma che razza di partito è, che immagine da’, se accadono cose di questo genere e a nessuno sembra interessare?).
E qui i conti non tornano: perdiamo voti, influenza, reputazione.
Non voglio vendette personali.
Nemmeno sostituzioni. Men che meno di un’area con un’altra.
Voglio solo chiarezza
E, come voi, voglio ricostruire.
Da dove si comincia?
Come in famiglia. Come tra amici. Chiedendo scusa. Se no non ci crediamo che siete pentiti. Come si fa a credere a delle scuse, se sono più che altro delle accuse ad altri? Come si fa, se non si promette solennemente che quegli errori non li si farà più? Come si fa, se prevale l’arroganza di sempre?
E poi è (era, ormai: la politica, ma anche le scuse in famiglia, hanno dei tempi – dopo è troppo tardi) necessario fare qualcosa subito, mandare un segnale a questo elettorato (quello dei 16 punti di differenza, quello, se volete, più propriamente ‘renziano’, quello che può sancire il nostro rinnovamento e la nostra rinascita o meno, il solo che può fare la differenza per il PD di domani): e invece no. Pavidamente, lo si è voluto evitare.
Lo dico da giornalista professionista, il mio primo mestiere. Che segnale è dire che non cambia niente? Che segnale è dire che le leadership sono inamovibili? Che abbiamo paura anche solo della parola dimissioni?
Perché, vedete, tutti dicono che occorre discontinuità con il passato.
Io continuo a immaginare difficilmente una discontinuità di pratiche con continuità di persone.
Per questo mi sarei aspettato, da parte dei segretari cittadino e provinciale, insieme, una assunzione diretta di responsabilità.
Non ho niente contro Bressa e Bettin personalmente: sono giovani bravi e generosi. Sono anche i meno responsabili, individualmente, della sconfitta. Non foss’altro perché sono al loro posto da poco. Sfortunatamente, sono loro i segretari. Chi altro avrebbe dovuto dare un segnale?
E a proposito: perché li metto insieme, sullo stesso piano, come una cosa sola? Perché, pur diversi come percorso e sensibilità politica, sono figli dello stesso clima, della stessa rete di relazioni, dello stesso patto consociativo malfatto e malgestito che li ha portati entrambi al loro posto: un patto voluto da pochi, apprezzato da pochissimi, ingoiato dai più, che sarebbe stato giusto cogliere l’occasione per denunciare in quanto tale. Perché non ha funzionato, e perché oltretutto non è stato nemmeno rispettato, cambiando subito le carte in tavola. Una spartizione decorativa, ai miei occhi. Che ha consentito alla medesima area di controllare sia il cittadino che il provinciale, pur con un segretario di area diversa.
A mio parere la situazione a valle (la sconfitta a Padova) è frutto anche, e molto, di quella scelta a monte, che non ha consentito di lanciare alcun vero segnale innovativo.
Personalmente, e non è un mistero, ero per un’altra soluzione, onestamente e apertamente conflittuale: un congresso vero, insomma. Disposto a perdere (ne ero certo in città, non del tutto in provincia). Ho cercato di convincere molti interlocutori fino all’ultimo giorno utile. Poi sono stato lealmente zitto, e non ho alimentato polemiche: anche se non sono nemmeno andato a votare a un congresso che non era tale.
Adesso lo dico perché penso che questa scelta ci costringa in un percorso obbligato e ci imprigioni, quasi una coazione a ripetere gli stessi errori.
Aggiungo che penso che il provinciale abbia la stessa responsabilità sul cittadino, visto che anche il provinciale era direttamente impegnato in città al suo massimo livello (con il suo segretario candidato in città!).
Ecco perché avrei voluto da loro due, insieme, una assunzione di responsabilità piena, una richiesta di scuse vere. E poi, senza aspettare che altri chiedessero le loro dimissioni, l’offerta delle medesime: per consentire una ripartenza più serena.
Poi si sarebbe potuto fare qualsiasi cosa. Accettarle. Rifiutarle. Congelarle.
E magari mettere il partito in mano a un gruppo di persone – che promettessero col sangue di non candidarsi alle regionali e non scelte con il Cencelli – che facessero delle proposte di rinnovamento serie, al di là degli steccati correntizi. E tra sei mesi o un anno si sarebbe potuti andare a un nuovo congresso. Magari eleggendo di nuovo Bressa e Bettin, ma finalmente legittimati, non azzoppati dal patto d’origine che li ha portati al loro posto.
Forse era ingenuo pretenderlo, ma di tutto ciò non c’è stata traccia, nel dibattito post-elettorale. Anzi, si è preteso di dire (seriamente: facendo finta di crederci) che “il rinnovamento noi l’abbiamo già fatto”: una frase impronunciabile senza arrossire (provate a pronunciarla fuori da queste mura, e vedete con quale sarcasmo sarebbe accolta…).
Al cittadino, sabato, si è deciso l’opposto. E io mi sarei opposto allora, se mi fosse stato consentito di parlare.
Oggi, per decenza, avendo voi scelto il continuismo al cittadino, non posso chiedere le dimissioni del solo segretario provinciale, meno coinvolto (e peraltro, avrei voluto che le presentassero loro, le dimissioni, prima che qualcuno gliele chiedesse…).
Ingoio, ancora una volta, il mio dissenso. E il mio sincero dispiacere per la mancanza di coraggio del partito, per il prevalere degli istinti di sopravvivenza.
Qualcuno potrebbe eccepire che la sconfitta a Padova è stata della città, e quindi tutto ciò avrebbe dovuto riguardare solo il PD cittadino. Sono convinto di no per le ragioni già dette, non banali. Ma anche perché, da membro del direttivo provinciale, ho anche insoddisfazioni specifiche (ancora una volta, non personali) che mi spingono a una richiesta di rinnovamento del modello di partito fin qui proposto.
Dico solo un paio di elementi. Il primo, è che non trovo ammissibile la coincidenza del ruolo di funzionario e di segretario (e oltre tutto, non si capisce perché a un livello sì e a uno no, con evidente disparità di trattamento). Se per giunta il segretario funzionario è pure candidato, lo trovo intollerabile. Di principio, insisto. E poi manca altro. Il metodo è sempre quello del partito del passato. Che prima decide, e poi discute, in totale ipocrisia. Come quando abbiamo fatto la discussione su quali candidati era opportuno sostenere alle europee in mezzo agli scatoloni di volantini di Flavio…
Ecco perché faccio fatica a credere che si voglia ricominciare su altro piano, anche se do’ a Massimo, ovviamente, il beneficio della buona fede.
Il problema non è chi ci sarà alla guida del partito, ma cosa farà: perché se farà le stesse cose, con le stesse chiusure interne ed esterne, ha già finito prima ancora di cominciare.
Voi, oggi, confermando lo status quo, ci state chiedendo un atto di fede: a chi ha perso – per rimanere nell’ambito delle virtù teologali – quasi tutta la speranza nel rinnovamento, e in questo partito non ha mai visto la carità interna.
Io la fede la tengo per cose più serie. E la carità ha più senso praticarla altrove. Resta la speranza, che, è vero, è l’ultima a morire: ma con poca convinzione.
L’onere della prova, adesso, ce l’avete voi. Visto che restate voi a governare il partito.
Fateci vedere, a noi che in tutta onestà facciamo fatica a crederci anche se lo vorremmo, il cambiamento.
Se lo vedremo, saliremo sul treno, senza polemiche e con riconoscenza.
Se no, fate pure da soli.
Come peraltro avete fatto fino ad ora.
(Coerentemente con questa impostazione, che non ha alcun dissenso rispetto alle proposte presentate, ma dissente dal fatto di non aver voluto prendere decisioni più incisive, non ho partecipato al voto finale sulla mozione presentata da Bettin, ovviamente approvata a stragrande maggioranza, come al solito: noi facciamo sempre così – quasi che il dissenso esplicito e il voto su mozioni contrapposte fosse pratica sgradevole anziché normale amministrazione e motivo di chiarezza, mentre l’unanimismo di facciata sembra un obiettivo in sé prima ancora che un mezzo).