La guerra, quella vera. E noi.

Torna la guerra, quella vera. Non quella delle metafore abusate, che con una leggerezza intollerabile ma significativa usiamo quando parliamo di politica, di sport, o di virus: a colpi di battaglie, conquiste, vittorie, sconfitte, nemici, alleati, lotta, trincea, vittime, sangue, vincere, perdere, difendere, attaccare…
No, torna la guerra come fatto reale. Perché tocca persone che conosciamo, e attraverso di loro. Gli ucraini e le ucraine che vivono tra noi. Finora solo forza lavoro: badanti e operai di cui sappiamo pochissimo (per esempio non sappiamo che hanno livelli di istruzione più alti dei nostri, ma sono costretti a fuggire la miseria di un paese tanto più povero del nostro), ma che oggi scopriamo nella loro umanità di persone dilaniate dal dolore e dalla necessità di compiere scelte primarie: partire, restare, difendere il paese e stare vicini agli affetti rimasti in patria, o aiutare da qui, in qualche modo. E poi ci sono i loro figli e figlie nelle nostre scuole, e quelli (e soprattutto quelle) sposate qui, in matrimoni misti ormai stabilizzati, che ci mostrano quanto le persone si identifichino assai meno nelle loro presunte radici etniche o linguistiche (in cui anche le guerre li imprigionano) e assai più nei frutti che la vita, nella sua casualità, ha fatto sbocciare dove è capitato. In loro ritroviamo una sofferenza che avevamo dimenticato: quella che ci hanno raccontato i nostri genitori e nonni che la guerra l’hanno vissuta, attraverso eventi troppo più grandi di loro, che li schiacciavano e li dominavano, e li costringevano a scelte dilanianti.
È vero che non sono stati settant’anni di pace, questi. Guerre vicine, come quella di Bosnia, ci hanno in parte coinvolto. Con altre guerre più lontane ci siamo invece emozionati meno. Ma forse per la prima volta da moltissimo tempo, attraverso gli ucraini e le ucraine che vivono tra noi (e anche attraverso gli assai meno numerosi italiani che vivono e lavorano là, testimonianza di una globalizzazione ormai saldamente intrecciata alle nostre vite), sentiamo con maggiore evidenza la violenza dell’aggressione ingiustificata, l’impotenza della vittima innocente la cui vita è travolta da qualcosa di troppo più grande, di incomprensibile, di indicibile. E riscopriamo il significato della parola destino, applicata a un’intera popolazione, a un’intera generazione.
Ma la guerra torna nelle nostre vite anche come archetipo potente, comprensibile per tutti. Quello che ti mette di fronte a scelte discriminanti, che ti cambiano e ti mettono a nudo, a potenze e passioni soverchianti, al bisogno di chiederti “tu cosa faresti al loro posto”, nella loro situazione. Dunque al tuo coraggio, o alla tua vigliaccheria, al desiderio di fare qualcosa e al non saper che fare, allo sprofondarti nel climax lasciandoti inondare di notizie e immagini terribili, o al contrario fuggirle, distraendoti, occupandoti d’altro, per non dover pensare. E purtroppo è vero che qui, anche qui, in questo modo, nei nostri egoismi e chiusure, o al contrario nei nostri slanci di altruismo, nel modo in cui reagiamo alle polemiche, o le fuggiamo, o al contrario le alimentiamo, in come traduciamo quello che accade là nelle nostre posizioni da qua, capiamo il peggio e il meglio della nostra umanità. Che si parli di sanzioni sì o no, a livello istituzionale, di governo o di impresa, pensando se ci conviene o meno. O se vogliamo usare il nostro portafoglio, o anche solo un po’ del nostro tempo, per testimoniare una vicinanza, per attivare una piccola solidarietà. Al di là delle retoriche. Nel concreto.

I dolori antichi e il conflitto che entra in casa, “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, 27 febbraio 2022, editoriale, p. 1

Economia, demografia, immigrazione. Il legame dimenticato.

Gli indicatori economici, mediamente, da diversi mesi hanno virato al bello. Non fosse per il faticoso reperimento di materie prime, o gli alti costi dell’energia, potremmo immaginare un futuro, a breve termine, relativamente radioso, anche grazie alla messa in sicurezza delle più alte cariche dello stato, che possono quindi garantire stabilità e affidabilità all’estero. Ma c’è un altro fattore, banale, che potrebbe rallentare pesantemente la corsa: il più ovvio e il meno considerato – la demografia.

La forza lavoro, la componente di popolazione tra i 15 e i 64 anni, scenderà nei prossimi trent’anni, nello scenario più probabile, dal 63,8% al 53,3%. In pratica, la forza lavoro passerebbe dal rappresentare i due terzi della popolazione, al rappresentarne la metà. Anche gli scenari a più breve termine sono tuttavia inquietanti. Diamoci un orizzonte men che decennale: i dati demografici sono comunque impietosi nella loro inesorabilità, dato che si tratta di dati oggettivi e incontestabili, e non di stime. Proiettando il fabbisogno di manodopera del periodo 2012-2020 al periodo 2022-2030 – come è stato fatto in una simulazione dell’Istituto Cattaneo condotta da Chiara Gargiulo e Gianpiero Dalla Zuanna – scopriamo, con certezza, che nel solo Centro-Nord il numero di occupati (nell’età 15-64 anni) calerà di oltre un milione e duecentomila unità. Per far capire cosa significa, traduco i numeri su uno scenario regionale: per il solo Veneto potrebbe significare oltre centocinquantamila lavoratori in meno, concentrati soprattutto nella fascia con il minore livello di istruzione, che è precisamente quella meno appetibile per i ragazzi (italiani e figli di immigrati) che entrano nel mercato del lavoro, in grande maggioranza, con un livello di istruzione elevato. Ci sarà dunque un vuoto occupazionale cospicuo, che le coorti più giovani non riusciranno a colmare. Un vuoto che non potrà essere compensato dagli immigrati dal Sud perché, seppure in misura minore, per quel livello di istruzione il deficit si presenterà anche nel meridione.

Su un orizzonte appena più lungo, per dirla con un numero anziché una percentuale: nei prossimi vent’anni la forza lavoro diminuirà di 6,8 milioni di persone, i pensionati aumenteranno di 6,6 milioni – una forbice inesorabile. In prospettiva il rapporto lavoratori attivi/pensionati, attualmente di 3 a 2, diverrebbe di 1 a 1 (il Fondo Monetario Internazionale sostiene che ci arriveremo al più tardi nel 2045, altre fonti anche prima): non solo insostenibile economicamente e dal punto di vista previdenziale, ma inimmaginabile nelle sue conseguenze sociali, culturali e relazionali. E dell’idea di mondo dominante, da parte di una quasi maggioranza di persone che avrebbe più passato che futuro.

Di fronte a questi scenari, gli imprenditori, che anche senza maneggiare i dati demografici sono consapevoli del problema perché già lo sperimentano nella difficoltà di reperimento della manodopera, hanno più volte lanciato l’allarme. La politica, invece – ma, più in generale, la classe dirigente, ai suoi diversi livelli – continua a rimanere silente: la prima perché non vuole abbandonare la rendita di posizione inerziale di chi per anni (per decenni, ormai) ha lucrato un comodo voto d’opinione e dunque una cospicua rendita politica nel “dagli all’immigrato”, soffiando sul fuoco del pregiudizio quando non di un esplicito anche se strisciante razzismo; la seconda, forse, per non scomodare i propri, di pregiudizi, e per non doversi porre il problema di trovare soluzioni meno semplicistiche a problemi che sono complessi.

Da qui, tuttavia, bisognerà partire, per dare un orizzonte ai territori, e più complessivamente al paese. Forse giova ricordarlo: in un’azienda, se non ci sono gli operai, saltano anche i livelli superiori – il che vuol dire che immigrati in meno significherebbe disoccupati italiani in più, e più emigranti, non meno. Qualche riflessione bisognerà pur farla. E senza aspettare troppo. L’orizzonte, come abbiamo visto, è breve.

 

Economia, il fattore migranti, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 11 febbraio 2022, editoriale, p.1

L’uso strumentale della giornata della memoria. Come dimenticarsi del nazifascismo.

Il testo scritto dall’assessore veneto all’Istruzione, Elena Donazzan, per la giornata della memoria, “alla Comunità Educante e Scolastica delle scuole del Veneto di ogni ordine e grado”, induce a una certa tristezza. Non scandalo, non rabbia, non sdegno, non costernazione, non imbarazzo (quello dovrebbe indurlo in chi l’ha scritto e trasmesso senza suggerire correzioni), ma la tristezza di vedere le istituzioni e le cose serie, come appunto la giornata della memoria, che dovrebbero essere utilizzate per unificare e riflettere, utilizzate invece, in un’ottica di parte, per confermare i propri pregiudizi ed esacerbare anziché sanare le divisioni nella società.

Donazzan riesce, in poche righe, nel capolavoro di richiamare al dovere di ricordare la persecuzione degli ebrei, ma senza nominare il fascismo, senza nominare il nazismo, senza nominare le leggi razziali e la dottrina della razza elaborata e attivamente sostenuta nel nostro paese, senza nominare il programmato genocidio di massa perpetrato dal nazismo e sostenuto collaborativamente e fattivamente dal fascismo italiano, senza nominare i campi di sterminio, di concentramento e di transito esistenti anche in Italia, senza nominare i vagoni piombati e l’Olocausto, ma in compenso citando per ben due volte il fondamentalismo islamico. Questo in un paese dove ancora in questi giorni ragazzi italiani hanno insultato altri ragazzi italiani in quanto ebrei, dove l’antisemitismo e l’antiebraismo circolano liberamente, frequentemente e senza condanna alcuna in ambienti politici e tifoserie calcistiche certamente più vicini all’elettorato dell’assessore all’Istruzione che nelle moschee d’Italia.

Capiamo sia difficile essere equanimi per chi ancora un anno fa, di questi giorni, preferiva cantare “Faccetta nera” alla radio, ricordando che il fascismo ha fatto anche cose buone (anche Hitler, anche Mao, anche Kim Joung-un, anche Stalin, o più recentemente Putin, hanno fatto certamente anche cose buone…); da parte di chi ha partecipato a feste di compleanno con torte con i simboli del fascismo e delle SS in compagnia dei colleghi di partito, o derubricava a goliardata il saluto romano e l’esposizione della bandiera della Repubblica Sociale dei suoi supporter vicentini; e infine da parte di chi ce l’ha sempre avuta con l’islam al punto da intervenire persino per impedire l’intervento di un innocuo imam (premiato anche da organizzazioni cattoliche per il suo impegno nel dialogo, conosciuto anche ai vertici delle istituzioni regionali, e molto attivo a fin di bene nel Nordest) in una scuola, esulando ampiamente dalle sue competenze in materia. Tutte cose di cui l’assessore Donazzan è stata perdonata troppo spesso: e tanto più sorprendente all’interno di una giunta il cui presidente, Zaia, ha invece avuto sempre parole molto chiare e inequivocabili sul fascismo, sulla Shoah, sulla persecuzione degli ebrei, sulla memoria.

Forse sarebbe auspicabile, da parte di chi agisce come rappresentante di un’istituzione, e non di una parte politica, un profilo un po’ più basso e un po’ più istituzionale, appunto. Forse sarebbe utile vedere lo stesso impegno nei compiti che sono invece propri dell’istituzione che si presiede: magari nel migliorare l’edilizia scolastica e nel dotare le scuole di rilevatori di CO2 e di filtri Hepa per migliorare l’areazione delle aule e diminuirne la pericolosità nella trasmissione del virus, anziché suggerire di cosa si debba o non si debba parlare nelle suddette scuole, inoculando altri tipi di virus. E se proprio si vuole parlare di un argomento più complicato di certe semplificazioni, lo si faccia in altro modo. Invece di fare una equivoca o equivocabile classifica degli antisemitismi, o scivolare su una discutibile comparazione tra antiebraismo e discussione critica nei confronti delle politiche dello stato di Israele, si ricordi che esistono un antiebraismo di destra (con il significativo dettaglio che è stato al governo nel Ventennio, con esiti letteralmente mortali per gli ebrei), un antiebraismo di sinistra, uno islamico, uno cristiano (non a caso più di un papa dignitosamente di esso ha chiesto perdono, invece di accusare altri), e tanti altri. E che quindi tutti insieme siamo chiamati a riconoscerlo nei nostri rispettivi ambienti, a condannarlo esplicitamente e a superarlo, ognuno a casa sua, senza cadere in discutibili comparazioni sulle dimensioni delle pagliuzze e delle travi negli occhi di ciascuno. Questo sarebbe l’alto messaggio educativo che ci aspetteremmo dalle istituzioni, in occasione della giornata della memoria.

 

L’orrore dimenticato del nazismo e del fascismo. La Shoah e il testo sbagliato dell’assessore all’istruzione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 gennaio 2022, editoriale, p.1

Vivere senza Dio? o pensandolo diversamente? Come cambia il paesaggio religioso

Con questo articolo si conclude la mia rubrica “Il mondo se” sulla rivista Confronti, in cui per tre anni ho provato a ragionare su come sarebbe (o come sarà) il mondo “se” o piuttosto “senza” alcune cose: in questo caso, come si trasformeranno le religioni e il paesaggio religioso delle nostre società

 

Senza religioni?

 

Secolarizzazione, privatizzazione del sentire religioso, pluralizzazione dell’offerta di religioni e religiosità disponibile, globalizzazione, crescente mobilità umana, progressiva perdita di significato dei confini, sono tutti fattori che sono alla base di una trasformazione gigantesca del paesaggio religioso. Non c’è più alcuna corrispondenza reale tra un popolo, un territorio, e un’identificazione religiosa specifica: sempre più sul medesimo territorio si trovano religioni vecchie e nuove, che spuntano per gemmazione o per inclusione, tra gli autoctoni quindi ma anche per effetto delle migrazioni, nonché forme crescenti di areligiosità. Tutto questo fa sì che si moltiplichino le occasioni di incontro, di confronto e anche di scontro: tra individui e comunità religiose, delle religioni tra loro (ma anche al loro interno), e con il contesto istituzionale laico.

Tutto questo accade a livello strutturale, di sistema, macro. A livello comportamentale, di individuo, micro, gli effetti di questa grande trasformazione sono ancora più evidenti. Da un lato le appartenenze tradizionali, diciamo ereditarie, esistono ancora ma sono sempre meno appetibili e accattivanti: una sorta di tradizionalismo debole. Dall’altro si diffondono e sono sempre più pervasive nuove modalità del credere, più esperienziali e spirituali. Come nelle forme di supermercato dei beni religiosi, di religione come fai da te individuale (mi prendo quello che via via mi interessa, un po’ di questo e un po’ di quello, l’oroscopo e le medicine alternative, la credenza nella reincarnazione e l’olismo new age, i tarocchi e l’I Ching, le parabole di Gesù e la meditazione trascendentale, il sufismo e il Dalai Lama…): ma con forme anche consapevoli e non necessariamente superficiali di sincretismo, significative per gli individui. Come nelle modalità di inclusione, di contaminazione cognitiva: mantengo un riferimento in una religione, ma credo e pratico a modo mio, aggiungendo al mio sistema di credenze altri spunti, magari dovuti ad incontri contingenti o di lungo periodo con altre religioni (come nelle amicizie e coppie religiosamente miste, sempre più diffuse). Come nelle scelte di conversione ad altre religioni, spesso impegnative, ma non necessariamente durature, tanto che anche convertirsi e cambiare appartenenza religiosa può diventare una pratica sociale e un modo specifico di essere credente. A margine di tutto ciò troviamo le forme progressive di abbandono della religiosità come contesto significativo, davvero produttore di senso per l’individuo, in favore di altri, non necessariamente legati allo scientismo o alla lettura razionale del mondo: più spesso ad altre pratiche e forme di impegno, e modalità di relazione, sentite come coinvolgenti – dalle pratiche artistiche collettive al consumismo compulsivo, dai rave parties al gaming, da certo pansessualismo al fanatismo politico-religioso, al suprematismo, al razzismo. Questi ultimi, spesso, nella forma di identità reattive sempre più diffuse, effetto dopo tutto della pluralità culturale a sua volta legata alla mobilità di idee e persone: si reagisce alla presenza dell’altro da sé, scagliandosi contro di esso, e trovando in questo una propria ragione d’essere. Un po’ come coloro che riscoprono di essere cristiani da quando ci sono i musulmani, o viceversa i musulmani che in occidente riscoprono confini identitari e forme di appartenenza visibile che nei paesi d’origine non avrebbero avuto ragione di essere sottolineate. Il che significa che lo scontro sociale non è legato alla separatezza e all’alterità, e all’esistenza di solidi confini identitari, come nella lettura huntingtoniana del conflitto come scontro di civiltà, ma semmai, al contrario, agli attraversamenti, alle permeabilità, all’incertezza progressiva dei confini, alla con-vivenza territoriale di diversità culturali.

In fondo, l’abitudine al cambiamento rende le singole scelte di mutamento meno drammatiche, meno rilevanti: un po’ come accade alle relazioni sentimentali. La possibilità di cambiare partner, e il fatto che questo accada sempre più di frequente, rende meno dolorosa le rotture dei legami e sempre possibile la speranza di riannodarne altri. Aggiungiamo che l’enfasi sul conflitto e lo scontro culturale non deve farci dimenticare il molto più frequente e pacifico incontro, e le forme di dialogo e accettazione dell’altro, e della diversità in quanto tale. Anche il dialogo interreligioso è dopo tutto oggi più una prassi di fatto che una teoria dell’incontro. Quasi a prefigurare che sia, in realtà, intrareligioso. Con tutte le implicazioni che questo ha e avrà sulle appartenenze religiose istituzionalizzate tradizionali, le chiese e le religioni storiche.

 

Senza religioni?, in “Confronti”, n. 12, dicembre 2021, p. 37

La bioetica applicata ai no vax

La bioetica non è una disciplina per specialisti. Quando si traduce in casi concreti, diventa un fatto popolare, che ci trascina in discussioni appassionate, schieramenti contrapposti, scontri di valori. È per questo che ci ricordiamo i nomi di Eluana Englaro, di Piergiorgio Welby o DJ Fabo. Perché in quei casi il paese si divise, e discusse per mesi, a tutti i livelli: dal parlamento al tinello di casa. Ed è interessante che le divisioni non furono per schieramenti presunti (cattolici contro non credenti, destra contro sinistra): i sondaggi dell’epoca testimoniano una divisione per motivi di coscienza, a seguito di riflessione individuale – tanto che anche i cattolici, i non credenti, la destra e la sinistra si divisero al loro interno. C’è un motivo per cui questo accade: i casi concreti ci costringono a chiederci cosa faremmo al posto delle persone coinvolte: persone come noi. Cosa avremmo fatto al posto di Beppino Englaro? Avremmo lottato per togliere nostra figlia da un innaturale attaccamento (non terapeutico, poiché non in grado di curare) a una macchina? E al posto di Welby, malato di distrofia muscolare? Avremmo chiesto di essere aiutati a morire?

È giusto discutere della questione della cura dei no vax allo stesso modo. Facendoci, da non specialisti, le domande di base. Cominciando dalla prima: devo vaccinarmi? Crediamo che una persona, per quanto riguarda le scelte che hanno a che fare SOLO con la propria vita, sia un soggetto sovrano: è il motivo per cui abbiamo, volendo, la possibilità e la libertà di suicidarci (o di darci, che so, all’alcol, o sparire dalla circolazione): assumendoci le conseguenze dei nostri gesti. D’altro canto lo stato ha il dovere, opposto, in caso di bisogno (ad esempio per motivi di salute pubblica), di imporre dei comportamenti di tutela collettivi, e la società di farsi carico comunque delle persone: ecco perché cura i malati, anche i tumori al polmone dei fumatori o la cirrosi epatica dei bevitori, cerca di recuperare i tossicodipendenti, o di riabilitare chi ha commesso reati, (tutte persone che, si potrebbe dire, se la sono cercata).

Il problema sorge quando le nostre scelte non hanno conseguenze solo su noi stessi: ad esempio quando siamo in concorrenza con altre persone, come accade per i posti in terapia intensiva, dati magari a dei no vax, che avrebbero potuto vaccinarsi, e tolti quindi a persone con altre patologie, incolpevoli e senza alternative. Di fronte a questi dilemmi la società dovrebbe, per prima cosa, fare di tutto per non dover arrivare ad alcuna scelta: così come si cerca di curare tanto il diversamente abile che l’anziano ammalato, e per estremizzare, il soldato del nostro esercito o il nemico ferito. Altrimenti si ricade nell’odiosa e vergognosa distinzione, che molti effettivamente praticano, per cui si chiedono le tutele per sé e non per altri: prima noi (e spesso si sottintende ‘solo’ noi), prima gli italiani, prima quelli della mia regione, prima i bianchi, magari… Una regressione di civiltà: che si tratti di un posto letto in ospedale, di un posto in un asilo o di una casa popolare. Davvero si è fatto tutto il possibile – bisognerebbe invece chiedersi – prima di arrivare alla scelta estrema di escludere qualcuno? Scopriremmo che, spesso, no, non si è fatto tutto il possibile, e sì, ci sono margini per fare di più.

Detto questo, prima o poi ci si scontra effettivamente con un problema di limiti e di risorse scarse: ed è in questi casi che sono necessarie delle scale di valore e delle gerarchie di priorità. Lo stato (o le sue istituzioni) può intervenire. Con degli obblighi, eventualmente, come accaduto con il vaccino: poiché le conseguenze ricadono su tutta la società (con gravi danni economici, psicologici e sociali), si può obbligare a una condotta specifica. E con delle regole che dettino le priorità. È qui che si apre il dilemma dei posti in terapia intensiva, oggi in discussione nelle commissioni bioetiche degli ospedali di tutta Europa. Prima ci si deve preoccupare di aumentare i posti disponibili, per non andare a detrimento di nessuno. Ma arriva il momento in cui tocca scegliere. Con l’ultimo posto letto rimasto a disposizione, è giusto che curi un no vax che poteva avere un’alternativa, o un paziente oncologico che non ce l’ha? A questo punto può diventare legittimo privilegiare chi non ha scelta. Senza colpevolizzare chi ce l’ha. Il problema non è tanto far pagare le cure ai no vax (dopo tutto, non le paga nemmeno un alcolista, un tossicodipendente e nemmeno un delinquente feritosi durante una rapina – che qualche responsabilità rispetto alla propria situazione ce l’hanno). Ma si potrebbe forse ragionare su una specie di dichiarazione anticipata di trattamento, che costringa il no vax ad assumersi le conseguenze della propria scelta: non mi vaccino, ma accetto, nel caso, di non prevalere su altri che non hanno avuto scelta. Forse farebbe anche capire a qualcuno quale è davvero la posta in gioco.

 

I no vax e l’onere di una scelta, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 21 gennaio 2022, editoriale, p.1

Video: perché “Torneremo a percorrere le strade del mondo”

Mobilità umana, migrazioni, turismo e tanto altro: perché torneremo a percorrere le strade del mondo

Caos tamponi: modelli di gestione a confronto – Italia e UK

Modello fiduciario e modello impositivo: potremmo definire così i diversi modi di funzionamento societario dei paesi europei. Proviamo ad applicarlo alla questione dei tamponi, che sta mandando nel caos le Aziende sanitarie ma anche le farmacie, con code di ore, costi economici e sociali elevatissimi, un concreto peggioramento della vita dei cittadini, l’aumento della rabbia sociale, oltre che il collasso del sistema sanitario per sovraccarico da eccesso di richieste.

Partiamo dal confronto con un caso concreto. Nel Regno Unito gli auto-test diagnostici sono gratuiti, distribuiti nelle farmacie su semplice richiesta e senza limiti, e sono considerati validi per le principali necessità (inclusa la presenza a scuola e al lavoro): inoltre contengono un QR code che migliora le capacità di tracciamento. Quelli con valore legale (per viaggiare all’estero, ad esempio) vengono richiesti online, recapitati a domicilio in poche ore (massimo 24) a tutti, anche residenti temporanei, hanno anch’essi un QR code di controllo, e anche in questo caso l’utente fa da sé, lo re-invia con la copia di un documento, e il certificato medico arriva via mail entro le 24 ore successive. In Italia occorre prenotare il test con anticipo di giorni per qualunque necessità (lavoro, scuola, vacanze, viaggi) presso le Asl o in farmacia (in questo caso pagando); oppure – oggi che la domanda è in crescita, per aumento dei positivi e a seguito di regolamentazioni farraginose e contraddittorie, si pensi alla scuola – ci si deve sottoporre a code estenuanti, per i cittadini come per il personale sanitario. E che oltre tutto sono causa possibile di ulteriore contagio.

Ecco, è un esempio semplice di due modelli societari diversi e per molti versi opposti. Ci si fida dei cittadini, e li si tratta come adulti consapevoli, correndo i rischi relativi, o non ci si fida e li si tratta come minori irresponsabili, in definitiva come sudditi. Certo, c’è un’idea delle regole, e del loro rispetto (pensiamo alle leggendarie file degli anglosassoni), differente. C’è anche la consapevolezza che il sistema all’ingrosso funziona, per cui chi non osserva le norme, prima o poi verrà colpito, la sanzione sarà effettivamente comminata, e il necessario tributo alla società pagato. Mentre qualcuno la farà franca, ma sarà il prezzo legittimo da pagare affinché i cittadini siano comunque trattati come tali.

Non possiamo immaginare una società in cui tutti rispettano sempre tutte le regole: semplicemente perché una società così non esiste, e probabilmente non è nemmeno auspicabile. Possiamo scegliere però come regolare la società: se con un patto fiduciario o un’imposizione. Entrambi i modelli hanno i loro vantaggi e i loro difetti. Ma ci pare evidente la superiorità (e maggiore efficienza) del modello fiduciario: non a caso sempre più applicato anche nella vita familiare, nel mondo dell’impresa, e più lentamente persino nelle istituzioni e nella pubblica amministrazione. Quello per cui si applicano, affidando una certa autonomia all’individuo, norme semplici, di cui sia più facile anche verificare il mancato rispetto con controlli a campione, e comminare una sanzione, correndo il rischio che una quota di popolazione non le rispetti, anziché costringere tutti a regole complesse e farraginose, con pochi margini di autonomia, ma con controlli successivi rari e non efficaci nell’evitare frodi che comunque ci saranno.

Certo, è il problema atavico del nostro modello statuale. Lo sa bene chiunque provi a fare impresa in questo paese: con la caterva di pratiche da svolgere ancora prima di avere cominciato, che costringono a spese, consulenze e lunghe tempistiche che si potrebbero tranquillamente evitare. E, certo, questi modelli affondano le loro radici in differenze antiche, secolari, non facili da cambiare perché sono quasi dei riflessi condizionati: che condizionano a loro volta, in primo luogo, l’attività legislativa. Ma forse anche il caos tamponi ci mostra che è ora di cambiare. Dopo tutto, come abbiamo scoperto con sorpresa noi stessi prima, e gli osservatori internazionali poi, le norme mediamente le rispettiamo, più di quanto crediamo: come ha mostrato la disciplina nell’applicazione del primo durissimo lockdown, e la percentuale molto elevata di vaccinati. Forse scopriremmo che un modello siffatto sarebbe più efficiente e costerebbe anche meno: con molte risorse risparmiate, che potrebbero essere indirizzate al controllo e alla repressione della devianza reale, anziché in una formale e costrittiva prevenzione di una devianza che forse non c’è.

 

Il caos tamponi e il giusto modello, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 gennaio 2022, editoriale, p.1

La scuola sempre ultima

È vero, i contagi sono in aumento. Molto personale è in quarantena, e non è facile gestire gli istituti. Ma la lettera dei presidi che chiede a Draghi di non riaprire le scuole fino almeno al 24 gennaio assomiglia molto a un suicidio non assistito: l’autodichiarazione certificata della propria irrilevanza.

Intanto, c’è un problema più generale di criteri di misurazione adottati. La variante Omicron è veloce e pervasiva nel diffondersi: ma è molto meno distruttiva nelle sue conseguenze, almeno per i vaccinati. Siamo sicuri che il numero di contagiati (inevitabilmente in crescita, dato il numero di tamponi esponenzialmente accresciuto) sia ancora un criterio dirimente per decidere lunghi isolamenti? Molti esperti sollevano il problema di quarantene e lockdown inutili (dato che gran parte della popolazione è vaccinata, non siamo più nella situazione di un anno fa, e non ha senso quindi avere le medesime regole), e in più dannosi per economia e socialità: forse sarebbe il caso di rifletterci. Detto questo, ci limitiamo allo specifico dell’ambito scolastico.

Sono due anni che si dice che la scuola è una priorità. Ma il fatto che la prima risorsa a disposizione – e non l’ultima spiaggia – sia sempre e solo la chiusura e la didattica a distanza, la dice lunga sul fatto che sia una priorità solo a parole: verbale, ma non fattuale. E in questo ci sono responsabilità di tutti: compreso del mondo della scuola.

Non sappiamo quanto a lungo dovremo convivere con la pandemia e le sue mutevoli forme. Proprio per questo c’erano misure di vario tipo che potevano e dovevano essere prese. Alcune di più lungo periodo: investimento in edilizia scolastica, classi più piccole – su cui non si vede alcuna progettualità in atto che sia adeguata alle dimensioni del problema. Ma altre potevano essere decise e attuate subito, e a costi relativamente modesti, come stanno facendo molti paesi europei. Mi riferisco in particolare ai rilevatori di CO2 (del costo di poche decine di euro), da mettere in ciascuna aula, in modo che si sappia quando areare gli ambienti (e non lasciare le finestre sempre aperte anche d’inverno, producendo altri tipi di malanni), e dei purificatori d’aria con filtri Hepa (un po’ più impegnativi come costo e installazione, ma del tutto alla portata dei molti soggetti istituzionali coinvolti). Si fosse voluto – e su questo giornale lo si è segnalato più volte e per tempo – si sarebbe potuto provvedere ad installarli in gran parte delle scuole già nella pausa estiva. Perché non si è fatto? È purtroppo facile rispondere: perché è scomodo, e molto più facile chiudere; perché, pur potendo essere in molti a prendere l’iniziativa, nessuno l’ha veramente assunta come priorità. Non l’ha fatto il governo, dando indicazioni in merito, con un piano straordinario nazionale (governo che porta anche la responsabilità di una comunicazione alle scuole contraddittoria e farraginosa). Non l’hanno fatto, quasi mai, le regioni, che pure sono – in alcuni casi – tra i soggetti che più premono per una chiusura ad oltranza: e che avrebbero potuto attivare propri capitoli di spesa e di intervento, se solo l’avessero voluto. Non l’hanno fatto i comuni, che pro quota hanno la medesima possibilità e dunque responsabilità. E non l’hanno fatto, salvo eccezioni che non a caso spesso fanno notizia, nemmeno i singoli plessi scolastici.

Non era questione di denaro. Queste misure avrebbero inciso sui rispettivi bilanci molto meno di altre, e peraltro non è il denaro che manca in questo periodo. Ricordiamo che l’istruzione è una delle priorità del Next Generation EU (quello che noi chiamiamo PNRR per poterci consentire di non occuparci per nulla delle prossime generazioni), e sarebbe stato facile attivare opportuni capitoli di spesa a questo scopo, anche con fondi europei. Ci domandiamo quanti governatori e sindaci – e, purtroppo, presidi – che spingono per le chiusure, si sono attivati con uguale impegno per adottare almeno le più semplici delle misure di contenimento, cui abbiamo accennato. Purtroppo, sappiamo la risposta: pochi. E per quanto si tenda sempre a scaricare la colpa su altri, ne portano la responsabilità tutti i soggetti citati. Nessuno escluso. A dimostrazione del fatto che la scuola – e il presente e il futuro dei nostri ragazzi e ragazze – continua a non essere una priorità per nessuno.

La scuola? Non è una priorità, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 gennaio 2022, editoriale, p.1

2021: i successi e i problemi irrisolti. Un bilancio.

Per aspera ad astra. Dalle stalle alle stelle. Dalla crisi più profonda e imprevista alla ripresa più rapida e imprevedibile. Dagli abissi di disperazione della pandemia all’inedito ribrillare dell’italico stellone.

È stato l’anno dell’Italia, quello che non ti aspetti, non ti potevi proprio aspettare, e di cui quindi godi con insperata gratitudine e qualche eccessiva illusione. L’anno di una crescita economica superiore a qualunque previsione, attesa e persino speranza. L’anno di una ritrovata autorevolezza internazionale che nessuno si sarebbe potuto ragionevolmente aspettare o anche solo immaginare, con l’Italia presa ad esempio dai paesi che di solito prendiamo ad esempio. L’anno dei sogni realizzati.

Abbiamo vinto di tutto. L’Eurovision con i Maneskin, un botto di medaglie alle olimpiadi e alle paralimpiadi, con l’oro simbolico – quello della velocità – di Marcell Jacobs, i titoli Europei di calcio e quelli femminili di pallavolo e basket, e altre grandi imprese sportive, dal tennis al ciclismo passando per il football americano, fino alla coppa del mondo di pasticceria e al premio Paganini di violino. Ci siamo così abituati ai nostri stessi recentissimi successi che, quando l’Economist ci ha premiato nelle scorse settimane come paese dell’anno, ci abbiamo creduto, facendo finta di non sapere che nel 2020 era stato il Malawi, nel 2019 l’Uzbekistan, nel 2018 l’Armenia, non proprio dei partner con cui ci confrontiamo abitualmente: perché l’Economist non premia il paese migliore, ma quello che ha migliorato di più, di solito perché partiva da molto indietro… E poi, naturalmente, c’è l’effetto Draghi, con un premier capace di farsi ascoltare all’estero come nessuno in tempi recenti, che ha cambiato in pochi mesi la politica interna e potrebbe influenzarla ancora a lungo, o almeno è quanto molti italiani sperano. Infine, ciliegina sulla torta, ci sono i soldi, tanti, del PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che ci danno una illusione di onnipotenza, quasi che tutto da oggi fosse possibile. Dimenticandosi che, in gran parte, sono debito: che andrà restituito. Facile indovinare da chi, e dunque su quali spalle grava: le giovani generazioni. Mentre gli appetiti intorno a questa montagna di soldi sono in gran parte espressi dalle generazioni presenti, quelle che hanno già avuto. E in gran parte finiranno ad esse, nonostante il progetto europeo si chiami Next Generation EU: un aspetto, questo, che in Italia si è lasciato volentieri in ombra. E non è strano, in un paese che invecchia a vista d’occhio, e che quest’anno ha avuto il saldo negativo di popolazione peggiore della sua storia repubblicana, il record di morti e quello negativo di nascite (non compensati dai movimenti migratori). Traguardi che, a differenza di quelli sportivi, si ricordano malvolentieri, e vengono lasciati agli addetti ai lavori: a torto, perché sono il presupposto di debolezze e crisi future, assai gravi, sulle cui conseguenze riflettiamo pochissimo.

No, non va tutto bene. Ci sono altre crisi in corso: globali. Dalla pandemia al climate change, passando per le rapidissime trasformazioni del neo-capitalismo globale, con le loro incontrollate conseguenze sulle crescenti diseguaglianze, gli sconvolgimenti nel mercato del lavoro, l’ingiustizia e l’insostenibilità fiscale. E ci sono specificità italiche spesso evidenziate ma che restano irrisolte. La crisi della politica (dei partiti, della rappresentanza, della governabilità, anche locale) e delle istituzioni (il sistema giudiziario in primis) che aspettano un intervento risolutivo che non arriva mai. Gli squilibri di genere riequilibrati solo dal punto di vista del principio: per la pratica, vedremo. I mai sufficientemente osservati problemi di redistribuzione: i cui meccanismi hanno visto quasi sempre avvantaggiate le rendite o i profitti, molto meno la remunerazione del lavoro salariato. Il fatto, banalmente, che oggi siamo tutti mediamente più poveri di ieri, e ci siano in ogni caso più poveri di ieri. Mentre altrove il reddito pro capite è cresciuto, e la percezione di un miglioramento della qualità della vita anche, da noi in questi anni sono calati in termini reali i salari e la capacità di spesa, e il sentiment ne consegue (siamo regolarmente in coda nelle classifiche di felicità percepita). Potremmo continuare: con la bassa occupazione, i bassi salari, la bassa produttività, l’evasione fiscale, l’economia illegale…

Tutto questo deve farci guardare all’anno passato con legittimo orgoglio, anche con qualche comprensibile compiacimento, per tirarci su ed affrontare le sfide del futuro con rinnovata energia. Ma sarà meglio evitare illusioni ottiche ed eccessi di autostima. Che rischierebbero di causarci un brutto risveglio al momento di tirare le somme dell’anno che verrà. Usiamo il bene che c’è stato ieri, nonostante le difficoltà, per farci gli auguri: di fare ancora meglio domani.

 

 

L’orgoglio e l’anno che verrà, in “Corriere della sera – corriere del Veneto”, 31 dicembre 2021, editoriale, p.1

L’Alzheimer come metafora

Siamo un paese che invecchia e si spopola. Più morti che nati. Più emigranti che immigrati. Lo scompenso tra generazioni è in crescita. La piramide demografica è diventata una specie di cilindro in precario equilibrio, perché più largo in alto che in basso: e dunque a rischio di crollo. Con conseguenze impreviste. La malattia di Alzheimer è una di queste, e può essere letta come una metafora della nostra situazione. Perché è legata direttamente all’anzianità (colpisce una persona su cento tra i 65 e i 74 anni, ma ben una su cinque sopra gli 85 – il frutto avvelenato di una buona notizia, l’allungamento della speranza di vita). E perché produce, tra le altre cose, perdita della memoria e del senso della realtà: scaricandone le conseguenze sulle generazioni più giovani.

I malati di Alzheimer (che può avere forme più o meno gravi) sono persone con cui è difficile relazionarsi. Moltissimi hanno problemi per vestirsi o curare la propria igiene. Una cospicua minoranza (vicina al quaranta per cento) manifesta forme di aggressività verbale, quasi il venti per cento anche fisica, un po’ di più reagiscono ad accadimenti che non comprendono urlando. Quasi un terzo confonde il giorno e la notte, moltissimi, nella forma più nota e anche leggera, non riconoscono congiunti o conoscenti, o non hanno memoria di breve termine, per cui ripetono continuamente le stesse domande, di solito a proposito delle medesime persone.

Ma a parte i cambiamenti nella loro personalità, inducono cambiamenti nelle loro reti di relazione, e nella società. Mediamente hanno bisogno di quattro ore di assistenza diretta, e dieci-undici ore di sorveglianza. Producono in chi si occupa di loro frequenti e improvvise assenze dal lavoro, in molti casi la necessità della richiesta del part-time (che di solito finisce per pesare sulle donne), nel venti per cento dei casi la perdita stessa del lavoro (idem). Con un costo medio stimato a paziente di 70mila euro l’anno, di cui 19mila direttamente a carico delle famiglie, significa che spesso i figli, costretti a diventare i genitori dei loro genitori, a seguito del sovraccarico lavorativo ed emotivo vivono situazioni di stanchezza e depressione, che si riverberano sulla vita familiare. Così come il costo economico dei genitori si riverbera e ha conseguenze sulle opportunità, anche educative, offerte ai figli, dalla generazione che sta in mezzo. I risparmi di una vita, in non pochi casi, finiscono per svanire in poco tempo per occuparsi di persone che non recupereranno alcuno stato di salute. Gli stessi caregiver (assistenti, badanti) assoldati allo scopo, spesso stranieri, non sono adeguatamente professionalizzati, e tamponano come possono le falle del sistema (come fanno, giocoforza, coniugi e figli dei malati). I servizi, infine, non sono adeguati alla drammaticità del problema, e gli investimenti previsti insufficienti rispetto al suo aggravarsi.

Nella sua drammaticità, specifica di una categoria per fortuna non amplissima, ma in crescita, descrive bene la situazione del paese. Un sistema che regge grazie al lavoro e all’inventiva di adulti e forza lavoro, non abbastanza aiutati per quello che fanno. Ma squilibri di genere ingiustificati. I vantaggi delle generazioni più anziane che diventano svantaggi per quelle più giovani, le tutele degli uni che diventano i gravami degli altri. E ancora, le reti di servizio insufficienti e sottodimensionate, con il conseguente peso che grava interamente su famiglie peraltro sempre più piccole, con meno risorse e più problemi. E in tutto questo, un dibattito politico che parla di tutt’altro, di preferenza di cose inutili o addirittura controproducenti per risolvere la situazione (un esempio: immaginiamo come sarebbe la situazione senza colf e badanti stranieri…). E pochi (che per fortuna ci sono) tra i governanti e i responsabili, che avendo una visione delle tendenze in atto, cercano di affrontare i problemi, e al contempo di far quadrare i conti, come un buon padre di famiglia (come si diceva una volta nel linguaggio giuridico: oggi dovremmo dire un genitore avvertito) dovrebbe fare.

Davvero, non sembra la descrizione del nostro paese?

 

L’Alzheimer come metafora, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 22 dicembre 2021, editoriale, p. 1