L’errore di imporre il dialetto a scuola
Con un tempismo che sembra fatto apposta per mettere in difficoltà i promotori dell’autonomia differenziata, proprio mentre se ne sta finalmente discutendo operativamente, c’è chi ripropone l’insegnamento obbligatorio (non facoltativo, obbligatorio) del dialetto veneto nelle scuole fin dalla materna, la possibilità di sottoscrivere accordi con la Rai, e la sua introduzione nelle “emittenti radiotelevisive locali, anche a tal fine appositamente costituite” (e già ci immaginiamo a quali clientele e sperpero di denaro pubblico apre tutto ciò).
Ora, non solo si tratta di una battaglia di retroguardia, ma è proprio sbagliata nel merito, e controdeduttiva nelle sue conseguenze.
La lingua veneta (chiamiamola pure così, con tutta la dignità che l’espressione comporta: siamo consapevoli che un dialetto è una lingua che ha perso sul piano storico, e una lingua è un dialetto dotato di un esercito) è vivissima. Si tratta della lingua minoritaria più diffusa e più parlata in Italia. La usano tanto i ceti popolari che le classi colte, come in passato plebe e aristocrazia, la si sente parlare dagli operai e dai loro datori di lavoro, fa capolino tra i liberi professionisti e tra gli studenti, e naturalmente in politica. È una forma di riconoscimento, e una cultura, che si tramanda di generazione in generazione, e riesce a trasmettersi perfino agli immigrati e ai loro figli, oltre che a permanere tra i nostri emigranti. A testimonianza del fatto che è una lingua forte, fortissima. Il tutto, senza essere mai stata insegnata a scuola: il che probabilmente significa che non ne ha bisogno. Anche perché – e non è un dettaglio insignificante – permea la cultura orale, che è la vera sorgente della sua forza e ricchezza, ma non è quasi mai utilizzata nello scritto, né ha una vera e diffusa tradizione in proposito: la maggior parte dei veneti che la parlano non la sa scrivere, non sente il bisogno di farlo, e se la scrivesse lo farebbe in forme tanto diverse da risultare non omologabili (per ironia della sorte, fu proprio l’umanista veneziano Pietro Bembo a far propendere per la scelta del toscano di Petrarca e Boccaccio come lingua scritta nazionale). Per inciso: non esiste un dialetto veneto, ma molti, non solo con inflessioni, ma persino con un lessico diverso (e in più ci sono varianti che contengono prestiti dal lombardo o dal ladino). Renderlo obbligatorio, imponendo una forma scritta omogenea e uguale per tutti, significherebbe di fatto operare un falso storico: inventare una lingua che non c’è, irrigidire in uno scritto implausibile un orale che è invece dinamico e in continuo movimento, e persino impoverirlo. Poi, naturalmente, ci sono i piccoli ma costosissimi dettagli pratici dell’operazione. Bisognerebbe, una volta inventato il veneto standard, assumere gli insegnanti, formarli, creare i libri di testo: il tutto, a che pro? Questa ossessione per il dialetto (che sarebbe al contempo, come visto, una sua mortificazione) rischia di trasformarsi in una eterogenesi dei fini: per usare la definizione di fanatismo di George Santayana, “raddoppiare gli sforzi quando si è dimenticato lo scopo”.
C’è un altro dettaglio non insignificante. L’insegnamento del veneto sarebbe una forma di discriminazione (e una inutile fatica in più) per tutti i figli di persone che in regione non lo parlano e non lo vogliono parlare: residenti da altre regioni, immigrati da altri paesi, ma anche i moltissimi veneti che non sentono il bisogno di farne uso (si stima che i parlanti una qualche variante del veneto siano meno della metà della popolazione regionale).
Ragioniamo anche un po’ più largo: questo renderebbe più attrattivo venire in Veneto a vivere e a lavorare? Sarebbe utile, vantaggioso? Forse la cosa migliore sarebbe chiederlo ai veneti, invece di pretendere di parlare a nome loro. Scopriremmo probabilmente che i diretti interessati non sono affatto d’accordo: le famiglie, il mondo della scuola, le categorie professionali, i mass media (tranne quelli che volentieri si adatterebbero a far marchette con i soldi dei contribuenti). Più costi (possiamo dire anche schei invece che denaro, il succo è lo stesso), più burocrazia, più clientelismo: siamo sicuri che è quello che vogliamo? Tutelare l’identità culturale (dal paesaggio alle tradizioni, dall’arte alla cucina, dai centri storici alla lingua) è sacrosanto. Ma non si fa con obblighi antistorici: semmai con politiche culturali che sappiano coinvolgere e invogliare. Come sempre, funziona assai meglio la seduzione che l’imposizione: solo che, per metterla in atto, bisogna essere capaci di esercitarla. Il Veneto come regione, e il veneto come lingua e come cultura, sono forti di loro: non hanno bisogno di stampelle che assomigliano pericolosamente a gabbie. Semmai, avrebbero da guadagnare in apertura e in proiezione verso il mondo (anche portando la cultura veneta, oltre che le sue eccellenze produttive, all’estero), piuttosto che in contemplazione del proprio ombelico.
Dialetto a scuola, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 19 ottobre 2022, editoriale, p.1