La società caleidoscopio. Un mondo nomade e plurale. TEDxPadova 2024
/in Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Video /da AugustaVeneto 2040. Inesorabile demografia: pochi o plurali
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaIl numero è 380mila. Se si preferisce, l’8%. È la quantità di popolazione veneta che sparirà da qui al 2040. Ancora di più, 440mila, sono invece gli occupati che non saranno sostituiti da nuovi lavoratori, semplicemente perché quei nuovi lavoratori non saranno nemmeno nati, e quindi non copriranno il numero di persone andate nel frattempo in pensione. Il tutto, solo per mantenere stabile la base occupazionale, senza neanche immaginare una sua crescita. Un numero enorme, che Fondazione Nordest fa bene a metterci sotto il naso in tutta la sua asciutta ma esplicita drammaticità. E che è stupefacente non produca dibattito politico e decisione pubblica: perché è la questione più importante, insieme a tutte quelle correlate con l’evoluzione tecnologica e l’intelligenza artificiale, con cui dovremo confrontarci da qui ad allora. Niente è più pervasivo, e ha effetto in più ambiti, della demografia: non solo lavoro, ma scuola, sanità, urbanistica, università, servizi, consumi, welfare, previdenza, cultura, religione, e qualunque altra cosa possa venirvi in mente.
Se non si riflette su questi dati, niente si può programmare. E se pensate che il 2040 sia lontano, vi sbagliate di grosso. C’è appena il tempo necessario per prepararsi. Non solo perché quanto accadrà allora, in termini di previsioni demografiche, è già prevedibile oggi con inesorabile precisione. Ma perché le previsioni sul domani sono in grado di determinare e modificare le scelte di oggi di molti soggetti, aggravando il problema. Quanti giovani, ad esempio, conoscendo questi dati (e li conoscono più di quanto crediamo, o li intuiscono, perché li sperimentano già oggi osservando il poco attrattivo paesaggio economico e sociale che li circonda, e vedendo le differenze quando viaggiano all’estero: e viaggiano…), decideranno di andarsene già prima di entrare nel mondo del lavoro, magari approfittando di un Erasmus, o decidendo di frequentare l’università direttamente altrove?
Certo, ci sarà più spazio, anche contrattuale, per i giovani che entrano nel mercato del lavoro. Certo, potranno entrarci più donne perché finalmente avranno flessibilità oggi inesistenti, che consentiranno di conciliare famiglia e lavoro (che è un problema che dovrebbero sentire anche gli uomini): la società, i datori di lavoro, saranno costretti a adeguarsi. Certo, si potrà eventualmente lavorare più a lungo (magari in forme diverse dal passato), visto che viviamo di più e più in salute di prima. Ma chi si illude che questo basti, e consenta di eludere l’ineludibile, si sbaglia di grosso: occorreranno anche immigrati. Prova ne sia che anche i paesi con pochi NEET (giovani che non lavorano né studiano) e una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, hanno bisogno anche di manodopera – e di popolazione – immigrata. Ecco perché, correlata alle proiezioni demografiche, c’è la questione della gestione dei flussi migratori: che non si potrà limitare al numero di lavoratori necessari, dato che anche loro, come tutti, tendono a costruire relazioni e a mettere su famiglia (anche gli immigrati hanno desideri, progetti, e si innamorano persino). Ce ne saranno molti di più, e ne desidereremo molti di più. La società è destinata a cambiare radicalmente, a pluralizzarsi, a normalizzare ciò che oggi viene considerato eccezionale, a fisiologizzare ciò che molti ancora considerano patologia. La competizione, presto, sarà su come attrarli, gli immigrati, oltre che su come trattenere i nostri giovani. E dovremo fare concorrenza a altre regioni (per motivi diversi, sia la Lombardia che l’Emilia-Romagna), già ora meglio attrezzate di noi. Mentre la politica (ma anche la cultura diffusa) è ancora impegnata nella battaglia di retroguardia di respingerli, gli immigrati, senza sapere come né perché. Certo, bisognerà studiare, confrontare, organizzarsi: non si può pensare che i processi accadano e basta. Bisognerà favorire i processi di integrazione come non si è fatto fino ad ora, e spendere per farlo bene, come del resto si spende in istruzione per vivere in un paese civile. Come sempre, come per ogni cosa, è questione di governo, cioè di prendere decisioni: se non si fa, si crea disordine; se lo si fa, si produce un ordine decentemente soddisfacente per tutti. L’alternativa, a non fare nulla, è un orizzonte cui rischiamo di doverci abituare: quello di una maggiore povertà, di una crescente solitudine, di una minore dinamicità che spingerà verso il basso i nostri indici di vivibilità. Niente che ci convenga, in ogni caso.
Leggete questi numeri, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 giugno 2024, editoriale, pp. 1-7
L’autonomia è finita. Per mancanza di autonomisti…
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Politica / Politics /da AugustaÈ un triangolo: il voto era europeo, il luogo il Veneto, ma le conseguenze nazionali. Che a loro volta influiranno sul destino del Veneto, in un complicato ma prevedibile effetto di feedback. Possiamo leggerlo così, il risultato che ci consegna la tornata elettorale per eleggere i parlamentari europei che spettano all’Italia.
La questione che principalmente balza all’occhio è il futuro dell’autonomia differenziata. Non si votava su questo, eppure le conseguenze saranno pesanti. La regione più autonomista d’Italia, quella che più di tutte ne ha fatto una bandiera, un simbolo, e spesso l’unica ragione di una offerta politica (al punto che per molti anni è bastata la parola per scaldare i cuori: anche quando era del tutto priva di contenuti concreti) ha votato con la percentuale più alta di tutte il partito più centralista che c’è, Fratelli d’Italia, con una maggioranza schiacciante, triplicando addirittura il risultato della Lega. Ma c’è di peggio. La Lega stessa mantiene un risultato appena decente solo perché si è affidata al fenomeno acchiappa voti (una scelta furba più che astuta) che si chiama generale Vannacci: un personaggio centralista nel midollo e nei messaggi veicolati, con l’anima ancorata al passato patriottico e tradizionalista (ricorrendo persino a quello repubblichino della X Mas), che si può stare certi non farà nulla per aiutare (semmai farà di tutto per contrastare) il sogno e il disegno autonomista teorizzato dal lighismo originario.
Non solo. È stato chiarissimo che i ceti produttivi, in passato alfieri dell’autonomia per sfuggire ai vincoli di Roma, hanno votato essi stessi il partito della premier. E la conseguenza è che Fratelli d’Italia prenoterà, con ottime probabilità di riuscita (sarebbe quasi un atto dovuto) la presidenza della regione, che non sarebbe più quindi a guida autonomista ma sovranista: e se non c’è un traino forte da parte della regione direttamente e maggiormente interessata, chi mai dovrebbe fare la fatica di spingere per un’autonomia che al massimo sarà utilizzata come merce di scambio, non solo rispetto al premierato? Possiamo prevederne già oggi il risultato: si farà prima o poi, ma senza fretta, un qualcosa che si possa definire un inizio di autonomia, per accontentare la Lega, ma saremo lontanissimi da quanto immaginato da Zaia quando lanciò il referendum sul tema, e dai cittadini veneti che lo votarono in massa con una fede quasi messianica, e come tale molto poco coi piedi per terra. Una magnifica illusione, insomma, oggi inesorabilmente al tramonto. Del resto, a picconarla non ci si è messa solo la maggioranza della maggioranza, ma anche la maggioranza dell’opposizione, dato che il Partito Democratico, con una scelta forse vincente nelle regioni del Sud, ma che pagherà in Veneto, ha deciso di mettersi alla testa di una dura battaglia contro ogni forma di autonomia differenziata: anche da parte di chi era a favore, ma dovrà adeguarsi per disciplina di partito. Di fatto non è neanche più “la Lega contro tutti” per l’autonomia, che sarebbe almeno uno slogan capace di coagulare consenso (e che piacerebbe a Salvini: in fondo ha una declinazione nostalgica nel “molti nemici molto onore” di mussoliniana memoria): ma “nessuno a favore, nemmeno la Lega”, come abbiamo visto. Almeno finché alla sua guida ci resterà Salvini. Ma Salvini, come noto, non ha alcuna intenzione di lasciare il comando, nonostante il disastro della sua leadership (che in passato, è vero, aveva salvato il partito: ma è destino dei leader quando credono troppo in sé stessi passare rapidamente dalle stelle alle stalle, basti pensare a Renzi). Un Salvini che non solo ha fatto oggi perdere voti, ma ha snaturato completamente la ragion d’essere della Lega, trascinandola all’opposto dei suoi ideali. Al punto che il suo fondatore, Umberto Bossi, ha votato Forza Italia, mentre la sua creatura politica, originariamente orgogliosamente antifascista, passava al fiancheggiamento aperto del peggio del neofascismo (e non ci riferiamo a Giorgia Meloni, ma agli ultras alla sua destra): ironicamente, per opera di un leader, Salvini appunto, che aveva cominciato la sua carriera nel consiglio comunale di Milano come leader dei “comunisti padani”, l’ala sinistra e progressista della Lega. Ma, si sa, è la politica. Di fronte alla quale non ci si può stupire che il partito principale sia quello del non voto.
Il partito snaturato. Le mutazioni della Lega, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 giugno 2024, editoriale, pp. 1-6
Dante, Maometto e la Divina Commedia. La strada per l’inferno (dantesco) è lastricata di buone intenzioni
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Islam /da AugustaQuando di una vicenda si appropria la politica per alimentare una presunta guerra culturale, la notizia vera (peraltro, datata: risalirebbe a qualche mese fa) sparisce dietro le polemiche e le strumentalizzazioni. Per cui prendiamola per come ci è pervenuta. Mi riferisco all’esonero di due studenti musulmani di una scuola media di Treviso dallo studio della Divina Commedia, per rispetto della loro fede religiosa, dato che Dante colloca il profeta dell’islam all’inferno.
Nei resoconti stampa si parla dell’iniziativa di un o una insegnante, di una spiegazione data alle famiglie su cosa i figli avrebbero studiato (che quindi, richieste di un parere, hanno preferito l’esonero), o di una richiesta delle famiglie stesse – e le versioni diverse già nascondono differenti opinioni politiche e opzioni ideologiche.
Due considerazioni sul fatto in sé, e un ragionamento sulle sue conseguenze. Il fatto. Se è avvenuto come descritto, naturalmente è – prima che grave – sciocco e superficiale. Perché in generale non si chiede un parere alle famiglie su ciò che i figli debbono o non debbono studiare: il programma è lì per tutti, e guai se la scuola comincia ad aprire una trattativa sui contenuti. E perché non se ne può più – quando si tratta di pluralismo religioso – di fare le cose male a fin di bene: come noto, la strada dell’inferno, anche quello dantesco, è lastricata di buone intenzioni. D’altro canto, una qualunque famiglia, di qualsiasi religione (anche cattolica), magari di livello culturale modesto, posta di fronte all’alternativa se studiare un autore di cui non sa nulla ma che parla male della fede in cui crede, oppure no, sceglierebbe la seconda opzione. Anche se – se è vero che l’alternativa è stata Boccaccio – viene da sorridere pensando ai risvolti moralmente più problematici e per l’appunto boccacceschi della vicenda. Dettaglio ironico ulteriore: lo studio di Dante sarebbe potuto servire per aprire alla comprensione della cultura islamica. Uno dei primi libri che ho preso in mano, quando ho cominciato a occuparmi di islam, per cercare di leggere il mondo dal punto di vista altrui e ragionare sulle reciproche influenze culturali, insieme a “Storici arabi delle Crociate”, pubblicato da un grande orientalista italiano, Francesco Gabrieli, fu proprio “L’escatologia islamica nella Divina Commedia” di Miguel Asín Palacios, in una preziosa edizione in due volumi (quasi settecento pagine di ponderosa erudizione) che dava conto anche della polemica seguita alla pubblicazione del libro: non sorprendente, dato che l’autore intendeva dimostrare come il poema dantesco fosse fortemente ispirato a fonti islamiche, e in particolare all’ascensione miracolosa di Muhammad al cielo, che i musulmani celebrano in una ricorrenza ad essa dedicata. Tesi rafforzata da ulteriori successive scoperte letterarie e traduzioni. Le vie della cultura sono infinite, e spesso sorprendenti.
Le conseguenze di queste polemiche sono tuttavia sociali e culturali. Perché innescano un riflesso condizionato di polemiche su una ipotetica ‘cancel culture’, e soprattutto di accuse ai musulmani. Vale la pena notare, allora, che per lo più non sono stati loro a fare richieste di rifiuto o cancellazione: che si trattasse del presepe o della recita di Natale, in cui i bimbi musulmani, pur di partecipare, farebbero volentieri anche la parte di Gesù (venerato profeta dell’islam, secondo di importanza solo a Muhammad) o di Maria (cui è dedicata una delle sure più importanti del Corano). Peraltro molti minori musulmani sono iscritti a scuole cattoliche per scelta proprio dei genitori, che – come molti italiani, più o meno credenti – preferiscono a torto o a ragione un ambiente educativo religioso a uno laico. Queste iniziative sono state sempre proposte da insegnanti di buone intenzioni e discutibili valutazioni, senza consultare i musulmani, al loro posto e a loro insaputa. Ma grazie al tam tam mediatico e alla strumentalizzazione politica si inscrivono nella memoria di ciascuno come inaccettabili pretese dei musulmani che non vogliono integrarsi: e allora, che se ne tornassero a casa loro… È questo il peggior servizio che si potrebbe fare ai musulmani, e il maggior danno che iniziative irriflesse come queste producono. Sarebbe il caso che anche gli insegnanti ci ragionassero sopra, dato che finiscono per ottenere il risultato opposto a quello auspicato.
Il caso Dante. Chi pensa di aiutare l’islam, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 28 maggio 2024, editoriale, pp, 1-2
Fleximan, un eroe improbabile
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaFleximan è il nome improbabile – che fa pensare più a un idraulico o a un contorsionista da circo di periferia, che a un difensore del popolo, a un Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri – che è stato dato a chi (forse più di una sola persona) ha fatto saltare un po’ di autovelox in giro per il Veneto, diventando in breve una specie di amato vendicatore popolare, una leggenda minore del Nordest. Ora che si è capito chi incarna davvero questa figura (almeno per alcuni dei danneggiamenti avvenuti), si può fare qualche considerazione in più. Sul soggetto in questione, e sulle emozioni che oggi lo circondano.
Normale che possa fare simpatia. Perché è vero che gli autovelox vengono installati allo scopo fondamentale di fare cassa. È vero pure che talvolta vengono programmati a tavolino, in anticipo, gli obiettivi economici che la polizia locale deve raggiungere in termini di raccolta fondi attraverso le multe. È vero anche che spesso, proprio per questo, vengono installati sulle strade di maggiore percorrenza per gli automobilisti in transito: in modo da colpire, in proporzione, più le persone che non abitano nel territorio che incassa il balzello (anche se non è sempre così: il caso di Cadoneghe, dove pure sono stati fatti saltare gli autovelox, insegna), e non pagare quindi il prezzo elettorale della vessazione. Tutto vero, condannabile e ingiusto: anche perché le multe non sono un’imposta progressiva – ed essendo uguali per tutti, è al più povero, al meno abbiente, che fanno percentualmente più danno. Ma è anche vero che gli autovelox stessi, come forma di dissuasione, hanno o dovrebbero avere una funzione precipua differente: tutelare la salute e le vite umane, da chi guida sulle strade senza regole e a velocità eccessiva, nelle ore diurne e peggio ancora in quelle notturne, provocando una lunga teorie di sofferenze, di vittime della strada (che è anche scorretto definire così: sono vittime di automobilisti indisciplinati e irresponsabili – la strada è innocente…), di famiglie rovinate, di tragedie umane. E semmai ci sarebbe da ragionare seriamente su quella specie di culto un po’ provinciale e vetusto, da boom economico, dell’automobile come veicolo di libertà e sua manifestazione, possibilmente senza regole, che sia il limite di velocità o di tasso alcolemico, che ancora è così presente in certo Veneto profondo, incapace di uscire da questa in fondo primitiva e persino banale ostentazione del proprio ego.
Fleximan quindi (o, come si legge in molte pagine sui social, Fleximen, al plurale: manco scriverlo in inglese corretto…) non è un eroe. E se lo è, appartiene a quella vena un po’ picaresca, vagamente anarchica, che alberga nell’animo popolare veneto, spesso con venature di estrema destra più antropologiche che veramente ideologiche (anche se queste non mancano: il nostro è stato segretario di Forza Nuova e ama usare la parola ariano con manifesta convinzione…). Persino certe istanze autonomistiche sono declinate, in fondo, in questo modo: facciamo da noi, facciamoci giustizia – anche – da noi, a modo nostro. E forse c’è un filo rosso (o nero) che lega le imprese del Tanko, il mugugno senza capacità costruttiva contro l’autorità quale che sia (inclusa quella che sarebbe l’incarnazione della vicinanza al territorio, come l’ente locale), benissimo impersonato dal Pojana, il personaggio del piccolo imprenditore veneto sempre in polemica col mondo inventato dal comico Andrea Pennacchi, e appunto Fleximan, il supereroe in saòr, che produce anche qualche effetto emulativo.
Non stupisce quindi, ma un po’ amareggia, e un po’ anche addolora, che sia diventato in poche ore un simbolo, un idolo quasi, con i suoi supporter acritici e i suoi fan più sfegatati, una sorta di capopopolo provinciale – che non ha né la tragicità di un Masaniello né la dignità e l’arguzia di un Rugantino – da sostenere nella sua lotta contro lo stato (che poi siano i comuni, all’occhio superficiale non fa differenza), a cui si vogliono pagare le spese legali lanciando collette, e che molti invocano fin d’ora come candidato alle elezioni. Peccato che abbia perso l’occasione delle europee, dato che le liste sono già chiuse, e il posto di spicco del protestatarismo guascone, da uno contro tutti, gli sia stato soffiato da altri personaggi in qualche modo simili, magari con la divisa e le stellette – mentre ieri erano gli agitatori no vax e domani chissà. Avanti il prossimo…
Tutto fuorché un eroe, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 19 maggio 2024, editoriale, pp. 1-6
Vademecum per non sprecare il voto europeo
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Politica / Politics /da AugustaBene fa Confindustria a incontrare i candidati alle elezioni europee: e pretendere una competenza adeguata dei medesimi. Male fanno tutti gli altri (categorie economiche, organizzazioni sociali, terzo settore, mondi religiosi, tutto quell’articolato mondo di socialità intermedie che costituisce il vero tessuto della società) a non fare altrettanto. E vale anche per gli individui e i singoli elettori: a cominciare dagli iscritti e militanti di partito sopravvissuti – i primi a essere umiliati dalle scelte che fanno le loro organizzazioni di riferimento.
Una vera pressione della società civile sarebbe utilissima a contenere le scelte inconcludenti e spesso avvilenti dei partiti. Purtroppo non ce n’è abbastanza. E le liste lo dimostrano. Come al solito, prevalgono (almeno tra coloro che hanno qualche possibilità di essere eletti) alcune figure specifiche: sempre quelle. I e le leader di partito, innanzitutto: che in Europa non ci andranno, ma mettono il loro nome per acchiappare il consenso generico di chi vota senza sapere perché – non distinguendo tra elezioni europee e nazionali. Certo, la colpa, in fondo, è di un elettorato impreparato, e inconsapevole del fatto che il suo voto di simpatia o di fedeltà sarà utilizzato per eleggere qualcun altro: tipicamente delle persone senza competenza (nemmeno quella di cercarsi le preferenze da soli), ma che poi obbediranno ciecamente alle direttive di partito – un comportamento, del resto, molto generosamente ricompensato. Ad evitarlo, basterebbe una norma di buon senso: per cui, se qualcuno si candida a qualcosa – qualunque cosa – e poi viene eletto, dovrebbe essere vincolato ad accettare la carica in questione dimettendosi da quella precedente. Ma naturalmente nessuno l’approverà mai.
I candidati bandiera sono un’altra figura tipica: persone messe in lista, spesso come capilista, non per le competenze che hanno, ma per quello che rappresentano. È un meccanismo in certa misura inevitabile, che qualche volta è stato persino usato bene: e tuttavia dovrebbe farci riflettere. Di solito si tratta di esterni ai partiti, e quindi potenzialmente più indipendenti e critici: ma spesso sono scelti tra impolitici, interessati quindi più all’avere che al dare. In passato sono stati in molti casi campioni di assenteismo, visto che il biglietto vincente della lotteria arriva solo una volta (una legislatura e poi via), e conviene massimizzare i vantaggi investendo il meno possibile. E il loro ruolo, anche nella tutela degli interessi nazionali, oltre che nel far progredire la costruzione dell’Europa, è quasi sempre nullo.
Gli amministratori sono una categoria molto gettonata, ma anche qui si opera una confusione: tra elezioni europee e locali. Non è detto che un sindaco, un assessore municipale o regionale, un consigliere, per quanto abbia operato decentemente (e una valutazione andrebbe pur fatta, sul passato: non sul fatto che c’eri, ma su quello che hai realmente prodotto) possa essere una figura altrettanto utile in un luogo, il parlamento europeo, dove i dossier – e le scale di grandezza – sono tutt’altri. E il minimo che dovremmo chiedere (a questa categoria come a tutte le altre), è di avere dimostrato un qualche interesse per i temi europei: sennò che ci si va a fare?
Infine, gli uscenti. Bene rieleggere chi già c’era, e conosce già gli ingranaggi: ma, anche in questo caso, basta esserci, o non dovremmo chiedere anche che cosa si è fatto nel concreto?
Non si pretende che siano i partiti a maturare una maggiore consapevolezza. Loro preferiscono, si sa, i fedeli alla linea alle voci critiche, i dilettanti rispetto ai professionisti, i ricattabili (se non fai quello che dico non ti metto in lista) agli indipendenti (che uno stipendio sono capaci di guadagnarselo anche da soli), i mediocri rispetto a chi può contestare la leadership e sostituirla. Ma dovrebbero farlo gli elettori: noi. Usando l’arma che abbiamo, la preferenza. Che non sarebbe spuntata, se la usassimo con discernimento. Subordinando le nostre scelte a dei criteri minimali: attività passata, competenze specifiche, conoscenza (almeno) dell’inglese. L’alternativa, del resto, non è incoraggiante: rassegnarsi al progressivo livellamento verso il basso del ceto politico, e quindi all’ininfluenza dei nostri rappresentanti – anche nel difendere i nostri legittimi interessi. Temiamo che una buona parte dell’astensionismo (rischiamo che anche in queste elezioni si rechi alle urne solo la metà del corpo elettorale) sia già motivato da queste ragioni.
Vademecum per il voto europeo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 maggio 2024, editoriale, pp. 1-6
Primo maggio: ha ancora senso festeggiarlo?
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaHa ancora senso festeggiare il Primo Maggio? Forse no. Forse non come lo si fa ora. Forse dovrebbe diventare una riflessione su come si sta trasformando il lavoro, e quale senso avrà, e quanto sarà diverso da quello che siamo abituati a pensare che abbia. Perché il tema è lì, ed è decisivo.
Non è tanto questione di data. Manteniamola pure, rispettando le tradizioni, anche se non molti, oggi, ne conoscono le ragioni. L’origine rimanda alla lotta di un gruppo di lavoratori statunitensi a Chicago per ottenere la giornata lavorativa di otto ore, e le proteste, gli attentati, la repressione e i morti che ne sono seguiti. Curiosamente, non è adottata come tale negli USA, i diretti interessati, dove il “Labor Day” si festeggia il primo lunedì di settembre. È invece stata adottata dal movimento operaio e socialista di tutto il mondo, e quindi viene festeggiato con più ostentazione nei paesi che socialisti si dicono ancora, come la Russia e la Cina (non proprio i paesi dove è ideale vivere e lavorare): anche se è festa pure nella maggior parte dei paesi d’Europa, dove però è diventato, appunto, un (benemerito, naturalmente) giorno festivo in più sul calendario.
La modalità invece ci dice qualcosa. Ho fatto in tempo a vivere e partecipare alle ultime grandi manifestazioni degli anni Ottanta (lavoravo, allora, al sindacato): quando il Primo Maggio non solo si bloccava tutto, ma i lavoratori (dipendenti, almeno), spesso con le famiglie, partecipavano davvero ai cortei, e ci tenevano, invece che approfittarne per una gita fuori porta (dove, invece, nel settore ampio della ricezione, lavorano tutti in turni rafforzati). Certo, la retorica era spesso insopportabile, i discorsi dei leader di CGIL-CISL-UIL e delle altre più o meno autorevoli autorità di contorno (dai sindaci all’ANPI o qualche altra sigla più o meno collegata al tema) monotoni, ripetitivi e di lunghezza oggi – ai tempi dei social – impensabile, anche per il militante meglio disposto. Ma, appunto, si respirava ancora aria di festa, e almeno si sapeva perché si era lì: c’era un clima che si poteva ancora condividere, e spesso messaggi da diffondere. Oggi? Dal 1990, ciò che era manifestazione popolare nazionale è stata trasformata in concertone. Tatticamente, una trovata abile: c’è una presenza cospicua, si coinvolgono moltissimi giovani (che ai cortei tendevano a sparire), e immagino si sia trovato il modo di caricare almeno parte delle spese sulle spalle della RAI, che lo trasmette in diretta. Soprattutto, ci si illude di contare qualcosa, perché gente, dopo tutto, ce n’è. Strategicamente, ormai ci si è già accorti che è una iniziativa a perdere. Perché le persone sono lì per tutt’altri motivi, e nonostante gli encomiabili ma anche un po’ cosmetici sforzi di inventarsi ogni anno un tema e una parola d’ordine, e qualche minuto di contenuti parlati nella disattenzione generale, magari con il contorno di qualche strumentalizzazione legata all’attualità politica del momento, alla fine ci si va solo (o lo si guarda in TV) perché c’è la musica e perché è gratis.
Questa parabola è fortemente simbolica, e ci dice molto sulle trasformazioni del lavoro. E, magari, dovrebbe richiamare più attenzione: anche e soprattutto da parte di chi, come i sindacati, svolge un lavoro di tutela di cui c’è ancora enorme bisogno, anche se in forme sempre più differenziate. Da un lato ci avviamo a un dualismo di fatto, a una polarizzazione progressiva: a seguito della quale per alcuni il lavoro è sempre più denso di significato e strumento di valorizzazione di sé e della propria creatività (sono quelli, sempre più individui e sempre meno collettività, che del primo maggio hanno meno bisogno, perché in più il loro lavoro è spesso decentemente redditizio); mentre per altri è solo uno strumento necessario e inaggirabile per percepire un reddito, sempre meno adeguato ai costi e ai bisogni, e sempre meno valorizzante per chi il lavoro lo svolge. Dall’altro il legame tra lavoro e reddito sarà sempre più indiretto: dall’alto, per così dire, perché chi può, perché ne ha i mezzi (i ricchi sempre più ricchi in un paesaggio di diseguaglianze crescenti), si è già liberato da solo dal lavoro, e non fa nulla per nasconderlo; dal basso perché si stanno diffondendo forme di reddito universale e di sostegno a prescindere dal lavoro svolto. Al punto da rendere obsoleto l’articolo 1 della nostra Costituzione, e dunque il fondamento su cui poggia. Che “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro” ha ancora molto senso nella sua prima parte, molto meno nella seconda, anche se continuiamo a crogiolarci nella retorica della Costituzione più bella del mondo.
Ecco, forse è questa la svolta su cui vale la pena riflettere, se vogliamo dare ancora un senso al giorno del lavoro: e farne occasione di riflessione sull’ingiustizia e di ripensamento della società.
Il vero senso della festa in un mondo del lavoro che sta cambiando, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 maggio 2024 pp. 1-4
“Prima gli italiani”, “prima i veneti”, “prima noi”: cosa c’è mai di sbagliato?
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaSappiamo che è difficile non condividere tutte le leggi “prima noi”: ci sembrano intuitive. Prima noi per le case popolari, le borse di studio, i posti in istituto per anziani e disabili, gli asili nido e qualunque altra graduatoria. Prima chi vive sul territorio, ci paga le tasse e ci ha messo radici. Sembra evidente: ecco perché questi ragionamenti sono così popolari. Sappiamo anche la questione è più simbolica che sostanziale: in fondo ci sono altri criteri che giocano (dal livello di reddito al numero di figli alla presenza di anziani), e quindi la discriminazione (positiva, nei confronti dei residenti da più tempo, o negativa, nei confronti dei neo-arrivati), potrebbe non incidere più di tanto. Ma allora perché insistere? E cos’è che non va nell’impostazione del ragionamento?
Un utile modo di vedere le cose è rovesciare la prospettiva. Immaginiamo di andare noi altrove: a lavorare in un’altra città o regione – magari perché chiamati da un datore di lavoro (che può essere anche pubblico: che cerca un medico, un insegnante, un carabiniere, un giudice…), o perché vogliamo aprire un’attività, o semplicemente perché ci innamoriamo di un posto – e pronti a contribuire al benessere proprio di quella regione pagando le tasse lì: come ci sentiremmo se ci dicessero che non possiamo accedere ai relativi servizi? Lo considereremmo “giusto”? E per vedere se oltre che giusto è anche sensato: come considereremmo un regolamento di condominio in cui si dicesse che non possono utilizzare l’ascensore, o devono mettersi in coda dopo gli altri, quelli arrivati per ultimi?
Parliamo di servizi fondamentali: casa popolare, asilo nido per i figli. Si chiede di essere residenti da un po’ di anni: ma spesso, quasi sempre, è proprio “all’inizio” (di una convivenza, di un matrimonio, di un’attività) che si ha più bisogno di supporto. Ha senso negarla, che so, a una giovane coppia, italiana o straniera che sia, semplicemente perché arrivata dalla provincia accanto, che sta in un’altra regione? Aggiungiamo che si tratta di un disincentivo a venirci, in una regione: perché mai, a parità di salario, di fronte a condizioni diversificate e di fatto discriminatorie per i neo-arrivati, una persona dotata di senno dovrebbe scegliere la regione che gli rende la vita più difficile? Che gli manda un segnale neanche tanto implicito di rifiuto? Che gli dice che è un cittadino di serie B? Ed è di questo di cui abbiamo bisogno, in una situazione di drammatico calo demografico e di gravissima difficoltà a reperire manodopera? Ci facciamo del male o del bene facendo così? Ricordiamo che già all’approvazione delle primissime leggi “prima i veneti” i primi a protestare non furono gli immigrati, ma gli agenti di polizia provenienti da altre regioni che vengono a fare un lavoro di cui i veneti hanno bisogno ma non vogliono più fare (o comunque non ce ne sono abbastanza): è questo il nostro benvenuto?
Qualcuno, per giustificare queste norme, parla di meritocrazia. Ma il merito non c’entra niente: qualcuno ha “meritato” di essere nato casualmente in una regione o in un’altra? Semmai c’entra il diritto e il bisogno. E con queste leggi si manda un messaggio di questo genere: “tu hai meno bisogno, ma siccome sei nato qui, per il solo fatto di essere nato qui – non perché sei migliore – hai più diritti di altri”. L’opposto esatto della meritocrazia.
Ma il problema vero per cui queste leggi si pensano e si approvano è simbolico, dunque politico. Consente di creare barriere, di far passare il messaggio che qualcuno ci guadagna a scapito di altri, di creare in maniera neanche tanto sottile una distinzione, dunque un capro espiatorio: non a caso si pensa immediatamente agli immigrati, e in particolare a quelli extra-europei. Per cui se non ci sono abbastanza case popolari non è perché da decenni le politiche pubbliche hanno smesso di occuparsi di questo problema, ma perché ci sarebbero “troppe” domande in qualche modo illecite o ingiustificate. E si fa una bella guerra tra poveri che in più consente a chi la promuove di lucrarne il consenso relativo: proprio perché il ragionamento, come dicevamo all’inizio, sembra intuitivo.
Purtroppo, così facendo, ci facciamo solo del male, soffiando sul fuoco dei conflitti anziché spegnerli. Anche perché è semplicemente antistorico: la vita di ciascuno di noi è sempre più mobile, i nostri figli si spostano sempre di più e sempre più lontano, anche solo la tendenza all’urbanizzazione è inesorabile (nel 1950 viveva nelle città un terzo della popolazione mondiale, nel 2050 sarà più di due terzi, al 2100 il pianeta sarà quasi interamente urbanizzato): veramente possiamo immaginare che una persona nata sul Garda sia trattata diversamente a seconda se va a vivere a Brescia o a Verona? Ma già, certo, le prossime elezioni saranno assai prima…
I diritti, i primi e gli ultimi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 25 aprile 2024, editoriale, pp. 1-5
Elezioni europee: le responsabilità degli elettori
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Politica / Politics /da AugustaSi avvicinano le elezioni europee, e il teatrino delle candidature mostra quanto queste vengano considerate, in Italia, una specie di varietà. È un paradosso autolesionistico, e molto indicativo, purtroppo, del livello del ceto politico, ma anche dell’elettorato.
Le elezioni europee sono infatti, per molti versi, persino più importanti di quelle italiane. Sempre più cose fondamentali si decidono a quel livello. Essere nelle commissioni, se possibile dirigerne i lavori e fare da relatori a progetti di legge (e capita solo se ti viene riconosciuta una qualche professionalità, o comunque hai una rete internazionale che ti sostiene, e a cui dovrai rispondere in termini di efficacia), è un modo prezioso e insostituibile di far progredire la collaborazione europea, ma anche di fare gli interessi italiani. E noi chi ci mandiamo, con una frequenza ottusa e sorprendente? Trombati alle elezioni; sconfitti ai congressi; rappresentanti uscenti da rieleggere (senza mai che si faccia un bilancio di quello che concretamente hanno fatto nella legislatura precedente: la rielezione è un diritto, che diamine!); nemici politici da ‘esiliare’ dove non possono disturbare il manovratore; yesmen e yeswomen incapaci della minima autonomia di pensiero ma fedeli alla linea; persone che non parlano alcuna lingua straniera (e con difficoltà, magari, quella italiana); sindaci di paesini da premiare per la loro fedeltà o semplicemente perché a fine mandato e bisognosi di una prebenda (con la scusa ufficiale che la vera politica si fa sul territorio, per cui se hai governato bene San Guidobrando sul Briscolo sarai perfetto per gestire i dossier economici o sull’intelligenza artificiale); figurine di facciata acchiappaclick che si trasformano rapidamente in assenteisti professionali (non essendo nemmeno militanti di partito, si accontentano di usarli come taxi all’incontrario – paga chi guida – per poi farsi abbondantemente i fatti propri); o semplicemente persone che dell’Europa non sanno e non interessa alcunché: magari perché, come è capitato anche a qualche leader di partito, sono addirittura contro la sua stessa esistenza, e quindi sembra loro un gesto eroico dileggiare quelle istituzioni le rare volte in cui ci vanno, incassandone tuttavia a tempo pieno le laute remunerazioni, senza dare nulla in cambio, o perché comunque, qualunque cosa dicano (o qualunque pietosa sceneggiata facciano: si è visto anche questo), si rivolgono sempre e solo al pubblico italiano. E se fosse per diffondere contenuti, o far vedere quanto hanno lavorato, passi, ma il più delle volte è per ripetere stancamente un messaggio ideologico inconcludente: siamo contro qualcuno, siamo a favore di qualcosa, ma in ogni caso non facciamo nulla.
Personaggi così ce ne sono anche in altri paesi. Ma, è onesto dire, in numero inferiore. Il che spiega perché altri paesi difendano meglio pure gli interessi nazionali, presidiando i dossier più importanti per la propria industria, agricoltura, società civile. Ricordiamocelo sempre: se l’Europa in qualche materia è su posizioni contro i nostri interessi, è spesso perché noi abbiamo mandato lì gente del tutto incompetente, che spesso nemmeno si accorgeva di quello che gli capitava sotto il naso. In più, abbiamo il fenomeno surreale di leader di partito o di regione che si candidano per raccattare voti purchessia a favore della lista, dicendo per giunta già prima che è tutto uno scherzo, tanto loro, lì, non ci andranno mai: e la preferenza da noi usata per simpatia sarà utilizzata per eleggere un ominicchio o un/a quaquaraquà, per usare l’indimenticabile terminologia di Sciascia, di cui ignoriamo persino il nome – e lo ignoreremo anche dopo.
Le percentuali di queste figure potranno essere differenti nell’una o nell’altra elezione, e riguardo questo o quel partito, ma è stata finora una costante. E dovrebbe interrogarci. Certo, ci sono stati nella storia anche casi di scelte lungimiranti da parte dei partiti e degli elettori: così clamorosi che risaltano per la loro stranezza. Ma la norma è l’anomalia. Alle europee non ci sono listini bloccati, ai quali abbiamo sempre dato la colpa del miserrimo livello del ceto politico nostrano. Il che significa che la colpa maggiore ce l’hanno gli elettori, che hanno l’arma della preferenza individuale, ma non la usano, o la usano malissimo. Butto lì uno spunto interpretativo: il livello di analfabetismo funzionale in Italia riguarda il 30% della popolazione, il doppio della media europea, che è del 15%; mentre il livello di “competenze adeguate o elevate” riguarda solo il 30% degli italiani, contro una media europea – più che doppia – del 65%. Con i giovani il gap si sta sempre più riducendo. Purtroppo, sia in cifra assoluta che in percentuale, votano di più gli anziani.
La qualità dei nostri politici, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 aprile 2024, editoriale, pp.1-2
Stefano Allievi
E’ autore di oltre un centinaio di pubblicazioni in vari paesi e di numerosi articoli e interviste su dibattiti di attualità. Suoi testi sono stati tradotti in varie lingue europee, in arabo e in turco.