L’errore di imporre il dialetto a scuola

Con un tempismo che sembra fatto apposta per mettere in difficoltà i promotori dell’autonomia differenziata, proprio mentre se ne sta finalmente discutendo operativamente, c’è chi ripropone l’insegnamento obbligatorio (non facoltativo, obbligatorio) del dialetto veneto nelle scuole fin dalla materna, la possibilità di sottoscrivere accordi con la Rai, e la sua introduzione nelle “emittenti radiotelevisive locali, anche a tal fine appositamente costituite” (e già ci immaginiamo a quali clientele e sperpero di denaro pubblico apre tutto ciò).

Ora, non solo si tratta di una battaglia di retroguardia, ma è proprio sbagliata nel merito, e controdeduttiva nelle sue conseguenze.

La lingua veneta (chiamiamola pure così, con tutta la dignità che l’espressione comporta: siamo consapevoli che un dialetto è una lingua che ha perso sul piano storico, e una lingua è un dialetto dotato di un esercito) è vivissima. Si tratta della lingua minoritaria più diffusa e più parlata in Italia. La usano tanto i ceti popolari che le classi colte, come in passato plebe e aristocrazia, la si sente parlare dagli operai e dai loro datori di lavoro, fa capolino tra i liberi professionisti e tra gli studenti, e naturalmente in politica. È una forma di riconoscimento, e una cultura, che si tramanda di generazione in generazione, e riesce a trasmettersi perfino agli immigrati e ai loro figli, oltre che a permanere tra i nostri emigranti. A testimonianza del fatto che è una lingua forte, fortissima. Il tutto, senza essere mai stata insegnata a scuola: il che probabilmente significa che non ne ha bisogno. Anche perché – e non è un dettaglio insignificante – permea la cultura orale, che è la vera sorgente della sua forza e ricchezza, ma non è quasi mai utilizzata nello scritto, né ha una vera e diffusa tradizione in proposito: la maggior parte dei veneti che la parlano non la sa scrivere, non sente il bisogno di farlo, e se la scrivesse lo farebbe in forme tanto diverse da risultare non omologabili (per ironia della sorte, fu proprio l’umanista veneziano Pietro Bembo a far propendere per la scelta del toscano di Petrarca e Boccaccio come lingua scritta nazionale). Per inciso: non esiste un dialetto veneto, ma molti, non solo con inflessioni, ma persino con un lessico diverso (e in più ci sono varianti che contengono prestiti dal lombardo o dal ladino). Renderlo obbligatorio, imponendo una forma scritta omogenea e uguale per tutti, significherebbe di fatto operare un falso storico: inventare una lingua che non c’è, irrigidire in uno scritto implausibile un orale che è invece dinamico e in continuo movimento, e persino impoverirlo. Poi, naturalmente, ci sono i piccoli ma costosissimi dettagli pratici dell’operazione. Bisognerebbe, una volta inventato il veneto standard, assumere gli insegnanti, formarli, creare i libri di testo: il tutto, a che pro? Questa ossessione per il dialetto (che sarebbe al contempo, come visto, una sua mortificazione) rischia di trasformarsi in una eterogenesi dei fini: per usare la definizione di fanatismo di George Santayana, “raddoppiare gli sforzi quando si è dimenticato lo scopo”.

C’è un altro dettaglio non insignificante. L’insegnamento del veneto sarebbe una forma di discriminazione (e una inutile fatica in più) per tutti i figli di persone che in regione non lo parlano e non lo vogliono parlare: residenti da altre regioni, immigrati da altri paesi, ma anche i moltissimi veneti che non sentono il bisogno di farne uso (si stima che i parlanti una qualche variante del veneto siano meno della metà della popolazione regionale).

Ragioniamo anche un po’ più largo: questo renderebbe più attrattivo venire in Veneto a vivere e a lavorare? Sarebbe utile, vantaggioso? Forse la cosa migliore sarebbe chiederlo ai veneti, invece di pretendere di parlare a nome loro. Scopriremmo probabilmente che i diretti interessati non sono affatto d’accordo: le famiglie, il mondo della scuola, le categorie professionali, i mass media (tranne quelli che volentieri si adatterebbero a far marchette con i soldi dei contribuenti). Più costi (possiamo dire anche schei invece che denaro, il succo è lo stesso), più burocrazia, più clientelismo: siamo sicuri che è quello che vogliamo? Tutelare l’identità culturale (dal paesaggio alle tradizioni, dall’arte alla cucina, dai centri storici alla lingua) è sacrosanto. Ma non si fa con obblighi antistorici: semmai con politiche culturali che sappiano coinvolgere e invogliare. Come sempre, funziona assai meglio la seduzione che l’imposizione: solo che, per metterla in atto, bisogna essere capaci di esercitarla. Il Veneto come regione, e il veneto come lingua e come cultura, sono forti di loro: non hanno bisogno di stampelle che assomigliano pericolosamente a gabbie. Semmai, avrebbero da guadagnare in apertura e in proiezione verso il mondo (anche portando la cultura veneta, oltre che le sue eccellenze produttive, all’estero), piuttosto che in contemplazione del proprio ombelico.

 

Dialetto a scuola, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 19 ottobre 2022, editoriale, p.1

Immigrazione, sbarchi, accoglienza: le contraddizioni dell’Italia

Sembra di stare in “Ricomincio da capo”, il vecchio film in cui uno sfortunato Bill Murray impersona un metereologo rimasto imprigionato in un loop temporale, che lo fa risvegliare ogni mattina alle sei nello stesso giorno, il giorno della marmotta. Noi invece siamo tornati all’era pre-Covid, nel periodo in cui Salvini era ministro dell’interno, e si faceva la guerra alle ONG e agli immigrati sbarcati in Italia (intorno ai 12mila nel 2019) mentre non ci si accorgeva che nello stesso anno gli emigranti erano saliti a 285mila, e forse il problema più serio era lì. Oggi come allora si usano i migranti raccolti dalle navi umanitarie (una frazione di quelli arrivati in Italia via mare, peraltro, a loro volta una parte del totale, che include anche chi arriva via terra per la rotta balcanica), per lanciare obliqui messaggi all’opinione pubblica interna, dimenticando totalmente i problemi veri, per non parlare dell’interesse dell’Italia.

Cominciamo dai problemi. La principale contraddizione sta nel fatto che i due principali partiti di governo, Lega e Fratelli d’Italia, non vogliono ammettere che esiste una necessità strutturale di forza lavoro immigrata. Si continua a dire che sì, è giusto salvare i profughi, “quelli veri”, ma i migranti economici non servono e non li vogliamo. Ebbene, è il contrario. I primi vanno salvati per motivi umanitari, e impegni liberamente assunti attraverso la firma di convenzioni internazionali: che, se non si è più d’accordo, vanno denunciate, assumendosene la responsabilità. Ma dei secondi abbiamo un enorme bisogno, e senza di loro rischiamo un vero e proprio de-sviluppo, in confronto al quale la crisi attuale sembrerà una passeggiata. Il motivo è semplice: nei prossimi trent’anni la forza lavoro (15-64 anni) scenderà, nello scenario più probabile, di dieci punti, dal 63,8% al 53,3%, passando dai due terzi alla metà della popolazione. Secondo molti le cose starebbero anche peggio: già solo tra il 2022 (oggi) e il 2030, e solo nel Centro-Nord, la quantità di forza lavoro calerà di oltre un milione e 200mila unità, per la semplice ragione che le persone che dovrebbero sostituire chi andrà in pensione non sono mai nate, non esistono, e quindi quelle posizioni resteranno inoccupate. Certo, potrebbero occuparle i nostri figli, se li facessimo: ricordo che negli ultimi due anni la differenza in negativo tra nati e morti ha superato le 400mila persone – una città come Bologna che sparisce ogni anno. Ma anche se prendessimo oggi i provvedimenti migliori del mondo per favorire la natalità (cosa che non si farà perché si preferisce investire, follemente, sull’anticipo dell’età pensionabile, e anche questo governo, come i precedenti, ha altre priorità), gli effetti sul mercato del lavoro si vedrebbero comunque tra vent’anni. Nel frattempo, i posti di lavoro, e la ricchezza che ne consegue, li bruciamo?

Gli imprenditori, di tutti i settori, queste cose le sanno già, visto che non trovano manodopera: non solo nel turismo, come denuncia il ministro leghista Garavaglia, e non solo nell’agricoltura, come ci si accorge a ogni inizio di raccolta stagionale, ma pure nella manifattura. Le sanno anche i politici che rappresentano i territori più produttivi d’Italia, a partire da Lombardia e Veneto, governati dal centro-destra. Il problema è che sono i loro riferimenti nazionali, i loro leader, a continuare a voler insistere sulla criminalizzazione dell’immigrato che arriva irregolarmente in quanto tale, per motivi di bottega elettorale, di messaggi che si vogliono mandare all’opinione pubblica (che tuttavia è probabilmente più avvertita di loro, visto che in tutti i sondaggi la paura dell’immigrazione è scesa notevolmente di livello, rispetto a ben più realistiche paure materiali). Finché non ci sarà una presa di posizione finalmente politica, anche da parte dei territori, in cui si denuncino le politiche nazionali su questi temi, non se ne uscirà. Continuando a fare (e qui veniamo al secondo punto) il male del paese, giocandosi la collaborazione internazionale, più necessaria che mai, in cambio di qualche strizzatina d’occhio in favore di telecamera all’elettorato interno, tanto in Italia come in Francia.

Il solo modo serio di affrontare il tema degli sbarchi di irregolari è la riapertura di canali regolari di ingresso, in collaborazione con l’Unione Europea e tramite accordi (che, se tali, devono essere vantaggiosi per le due parti) con i paesi di provenienza; la gestione europea dei richiedenti asilo, con una revisione (che non può che essere concordata, non imposizione unilaterale) degli accordi di Dublino e sul ricollocamento dei profughi; e l’integrazione di chi è già qui, smettendola di additare l’immigrato come un nemico, dato che queste semine d’odio hanno effetti gravi sul piano sociale, creando conflitti anziché risolverli. Per evitare di occuparsi di questi, che sono problemi seri, e presuppongono riflessione, lavoro e competenze, si preferisce invece continuare a piantare bandierine identitarie, in cui la sceneggiata sulle ONG è parte dello spettacolo. Un giochino che alimenta il clima da tifo calcistico, ma non risolve i problemi: li aggrava. E, come si è visto, indebolisce la collaborazione intraeuropea anziché rafforzarla.

 

Migranti, gli errori italiani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 novembre 2022, editoriale, p.1

Sparano pallini contro l’insegnante, e postano il video. Al di là dell’indignazione

Non è il Far West, e nemmeno gli somiglia. Ma è un episodio utile per riflettere, e lo usiamo a questo scopo. Il caso è quello dei tre ragazzini di prima superiore in un istituto tecnico di Rovigo che, per divertimento, hanno sparato con una pistola ad aria compressa a un’insegnante, ferendola lievemente, e naturalmente immortalando l’impresa in un video. Niente di grave come conseguenze pratiche: nemmeno il bisogno di ricorrere a cure mediche. Ma un rischio potenziale maggiore, e soprattutto significati culturali e conseguenze simboliche che è utile valutare.

Bene ha fatto la scuola – al di là della scontata (ma certo non percepita come particolarmente punitiva) sospensione dei ragazzi coinvolti – a cogliere l’occasione per parlare di educazione civica con tutti gli studenti. Doveroso affrontare con un approfondimento specifico i diretti interessati e le loro famiglie: magari, insieme all’insegnante – è sempre bene guardarsi negli occhi, in certe situazioni. Ma quello che colpisce l’osservatore adulto (che tuttavia tende a generalizzare un po’ troppo) è in qualche modo l’idea di profanazione della sacralità della scuola: ormai persa, e sulla quale dovremmo lungamente interrogarci, per approfondire ragioni culturali, politiche, economiche e corporative di questa perdita di autorevolezza – che, in mancanza di un profondo rinnovamento dei contenuti e della didattica, è irrimediabile. E lo si vede anche nel modo rassegnato con cui i docenti affrontano talvolta le classi e il loro stesso ruolo; nella difficoltà di gestire l’aula, le sue regole, i suoi conflitti interni.

A detta di professori e preside colpisce l’inconsapevolezza – frequente, in questi casi – della gravità di quanto fatto, e l’omertà tra ragazzi: tutti ridono, nessuno “fa la spia”, ovvero risponde alla domanda “chi è stato”. Ma anche questo è un annoso dilemma morale, che passando per i ragazzi della via Pal arriva fino a noi – un difetto degli uomini, non dei tempi. Forse ci sarebbe utile, dopo tutto, ricordare che la maggioranza dei ragazzi “non” fa queste cose, se ne dissocia, usa questi episodi, esattamente come noi, per ragionare sul significato della norma e del suo discostarsene. Come sempre, inevitabilmente, fa più notizia l’albero che cade della foresta che cresce. Ma tali comportamenti non rappresentano la fisiologia, ma, tuttora, la patologia.

Certo, l’arma portata a scuola inquieta. Non è necessariamente indicatore di propensione alla violenza, ma di leggerezza e infantilismo, e di mancata introiezione di alcune regole di base del processo di socializzazione che famiglia e scuola sarebbero chiamate a insegnare, sì. Ed è bene utilizzare l’episodio per ribadirle. Ma se l’obiettivo fosse stato far male, sarebbe bastata una sedia.

Sulla questione del video e della sua diffusione sui social, siamo nel pieno delle problematiche della contemporaneità: la ricerca dello scherzo, del meccanismo acchiappalike, del quarto d’ora (scarso) di celebrità a buon mercato, dell’ossessione di apparire in quell’altra realtà, quella virtuale, in cui riusciamo a sentirci in qualche modo protetti, anche dalle conseguenze dei nostri gesti (che invece sono amplificate). Ma la decolpevolizzazione che parla di bravata o di scherzo purtroppo la imparano nei loro luoghi di socializzazione abituali, dagli adulti: la famiglia, pronta troppo spesso a difendere i suoi membri a prescindere, ma anche la cultura pubblica (intesa in senso lato: dal tifo calcistico alle aule parlamentari), che spesso derubrica a bravata un insulto razzista o un pestaggio omofobo. E a proposito, colpisce anche la stanca, immediata ma scontata reazione trasversale, quasi un riflesso pavloviano, della politica, non importa il colore: che reagisce tutta col medesimo linguaggio, la stessa aggettivazione drammatizzante, l’ennesimo richiamo a una presunta “emergenza nazionale” (ormai lo è tutto, dunque non lo è più niente), la solidarietà priva di contenuti alla classe insegnante. Mostrando una distanza dal reale che ormai non fa nemmeno più notizia.

 

I pallini non sono il Far West, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 ottobre 2022, editoriale, p.1

Il cosiddetto gender. Di cosa ha paura chi ne ha paura

Le teorie gender non esistono. Non, almeno, nella forma di spauracchio che coloro che le avversano temono. Esiste invece la ricerca di un’identità di genere oggi sempre più fluida: che per i giovani è costitutiva, primaria, ma che vedono in maniera molto diversa rispetto alle generazioni che li hanno preceduti.

È per questo che nelle scuole e nelle università è così importante che se ne parli (lo si fa già, del resto: la differenza è se ad interrogarsi sono anche le istituzioni, come necessario). E che si consentano percorsi di sperimentazione diversi, come gli alias, il cambiare nome e apparenza: perché è davvero un altro mondo quello che ragazzi e ragazze stanno attraversando, anche se noi, generazioni precedenti, non lo capiamo. Per molti di loro è la nuova normalità. Sono cambiati i costumi sessuali, ma anche i sentimenti e il modo di esprimerli, e le forme di espressività. Il semplice fatto che la distanza dal primo rapporto sessuale al momento del matrimonio o semplicemente di una convivenza, di un legame più stabile, sia aumentata così tanto, e si misuri ormai in lustri, nemmeno in anni, ha fatto sì che in mezzo si apra un campo e un periodo di sperimentazione, anche per tentativi ed errori, con un aumento dei partner e del tipo di rapporti: il cambiamento anche culturale che c’è già stato consente ai giovani di sperimentare e sperimentarsi come nessuna generazione precedente ha potuto fare.

Sì, certo, è anche un fenomeno di moda, ed è normale. Come per tutte le cose significative che ci riguardano: ma dietro ci sono domande autentiche, vita vissuta, sofferenze anche (basterebbe ascoltare coloro che si sono trovati in situazione di incertezza identitaria, magari abitando in un piccolo paese, non capiti dalla famiglia, dal contesto che avevano intorno, e solo grazie a internet hanno scoperto che la loro ricerca aveva un nome, che c’erano migliaia di giovani come loro, e questo li ha salvati). Se ne discute, si parla, si sperimenta, si assumono comportamenti diversi, e se ne capisce il costo, la difficoltà, l’impegno. La società complessivamente ci guadagna. Bisogna cominciare a pensare che a essere capaci di vivere l’esperienza dell’altro non ci si perde niente: ci si arricchisce solo, e ce n’è un enorme bisogno. I giovani in questo vogliono davvero essere diversi dalle generazioni che li hanno preceduti, e potranno vivere in un mondo diverso perché lo stanno già costruendo.

Non è lo sfizio di un progressismo ottuso, che viene accusato di non vedere i veri problemi della società, mentre questi sarebbero inutili e irrilevanti. Così come per l’accettazione della pluralità culturale, il multiculturalismo cui viene spesso accoppiato, l’attenzione al genere mostra che per le giovani generazioni, tanto la diversità etnica e razziale, quanto la differenza di genere, è sempre più irrilevante. È proprio un salto generazionale. Come i bambini che fin dal nido hanno come compagni bambini di altra religione, colore della pelle, etnia, e non lo vivono come problema, non si fanno problemi ad accettare queste diversità, almeno fino a quando non si mettono a ripetere pappagallescamente i pregiudizi appresi in famiglia, dai loro genitori, così è per l’identità di genere, e i comportamenti detti devianti, o non conformi. E questo processo, ormai innescato, è irreversibile: tanto vale tenerne conto.

Forse sta accadendo qualcosa di simile all’attenzione per l’ambiente e per la natura: la cecità ottusa non è la loro, è la nostra, che non ci siamo accorti di quanto eravamo parte di un tutto. Ecco, loro si accorgono di essere anche plurali, liquidi, più di quanto noi pretendiamo di essere (senza esserlo davvero), singolari e solidi, quando non tetragoni. In particolare nella fase della vita, sempre più lunga, in cui sono a scuola e all’università: in cui discutono, si fanno domande, si posizionano rispetto alla società, cambiano e la cambiano. Per questo è necessario non solo tenere conto della loro ricerca e della loro espressività, ma anche ascoltarli. Abbiamo qualcosa da imparare pure noi.

Non stupisce che a favore di una discussione aperta sul tema siano in primo luogo gli insegnanti e gli psicologi. I primi perché sono quelli incaricati dalla società di far funzionare il processo di socializzazione, che nelle famiglie funziona sempre meno: trasmettendo valori che si scoprono sempre meno condivisi. E i secondi perché una marea di questi ragazzi li hanno in cura, proprio perché non li ascoltiamo, e non ci rendiamo conto dei cambiamenti che hanno attivato. Così come non stupisce che un pezzo della politica e della società continui ad essere contro a qualunque discussione: proprio perché è lontana da questi mondi, proprio perché non li capisce.

 

I giovani, gli adulti e il gender, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 22 ottobre 2022, editoriale, p.1

La violenza di genere. E qualche possibile risposta. Il punto di vista di un maschio, adulto

L’ennesimo femminicidio pone per l’ennesima volta il problema di trovare una risposta alla più banale delle domande: perché? Perché ancora questa ottusa violenza sulle donne? Provo a rispondere a partire da quello che sono: un maschio. E a sminuzzare alcune ipotesi che non pretendono di essere una teoria, ma solo frammenti di spiegazione che tentano di dire l’indicibile.

C’è un problema del maschile con la violenza in generale, innanzitutto. La violenza come mezzo quasi ‘naturale’ (anche se non c’è niente di naturale in tutto ciò, ma è frutto di una cultura tramandata nei secoli) di risoluzione dei conflitti, che poi vuol dire anche l’incapacità di trovare altri mezzi per farlo. Non a caso la guerra è affare dei maschi, e laddove non è più (e per fortuna) questione pubblica abituale (in passato ogni generazione aveva la sua guerra, la sua insurrezione, la sua colonizzazione, la sua indipendenza, o la sua rivoluzione, per la quale andare allegramente a combattere), è rimasta una sua presenza forte nel privato, nel quotidiano: violenza di genere, bullismo, conflitti metropolitani da traffico o da stadio, violenza gratuita e delinquenza vera e propria, ma anche competizione estrema nel mondo del lavoro, nello sport, e altrove. Come se l’imporsi fosse il solo modo conosciuto di farsi strada. Si badi bene, non è che la violenza nel privato sostituisca la guerra: in passato c’era e l’una e l’altra, ed entrambe a livelli di barbarie ben peggiori. Semplicemente la diminuzione di frequenza dell’una ci costringe a vedere meglio le logiche sottese all’altra, che dipendono da noi e di cui abbiamo responsabilità: a differenza della guerra non possiamo dire che è colpa di qualcun altro.

Collegata alla violenza, e alla competizione, c’è la questione dell’esercizio del potere. Che, anch’esso – cominciamo ad impararlo – ha molte dimensioni e può essere esercitato in molti modi, anche orizzontali e inclusivi, ma per il quale ricadiamo troppo spesso nella legge del più forte, nell’imposizione e nella verticalità, che poi è una traduzione su altri piani della gara a chi ce l’ha più lungo: che si tratti di politica, di impresa, di scuola o di famiglia. Anche qui un’evoluzione c’è stata, eccome. Ma uscire da abitudini consolidate di privilegio (e quello del maschile nei confronti del femminile è sicuramente tale), tanto più perché indifendibili sulla base della logica e della razionalità, richiede tempo (generazioni: e tuttavia sta accadendo, l’evoluzione sociale in questo senso è inesorabile), ma anche capacità di lettura dei fenomeni e magari guida: e questo si vede meno. Le donne conquistano faticosamente spazi, gli uomini ne perdono, ma in un certo senso non ancora abbastanza, e restano spesso arroccati in un’ottusa difesa (di un fortino sempre più piccolo, le cui ragioni d’essere si indeboliscono platealmente) che non so definire altrimenti che corporativa: e quindi, come tutte le corporazioni, che sanno di essere l’opposto della meritocrazia, e di difendere privilegi ingiustificati, fuori tempo massimo rispetto alla storia, sanno reagire solo con la prepotenza – senza nemmeno più ricercare motivazioni.

Si dirà che è un problema di cultura, ed è giusto, se si prende il termine in senso ampio (non di istruzione solamente, dato che la violenza nei confronti delle donne attraversa anche le classi sociali e i ceti). E allora forse vale la pena chiudere la nostra riflessione su questo: la cultura di genere. Abbiamo la sensazione che una parte del problema stia lì. Nella definizione di ruoli differenti, ancora troppo caratterizzati come irriducibili, ad alcuni dei quali è associato più potere di altri. Anche in forme indirette: il fatto che il lavoro esterno sia salariato, quello domestico e di cura no, o il fatto che i lavori a maggiore presenza maschile vengano pagati meglio di quelli detti femminili, fa passare in maniera strisciante e silenziosa un messaggio assai chiaro, in una società in cui il valore si evidenzia soprattutto attraverso il denaro (e semmai ci sarebbe da mettere in questione anche questo aspetto: se l’aspetto relazionale è così centrale nelle nostre vite, perché il lavoro relazionale vale così poco?).

Le generazioni più giovani, che vivono in maniera sempre più ovvia e autoevidente una maggiore fluidità di genere, e il desiderio di superare steccati, confini, ruoli e luoghi comuni legati al genere, forse in questo senso possono insegnarci qualcosa: perché la capacità di assumere il ruolo dell’altro (non in astratto, ma nella pratica: che significa a casa, al lavoro, nel modo di relazionarsi, di vestirsi, di comunicare con le parole e con il corpo, di usare il tempo, di desiderare un ruolo) ci consente di comprenderne meglio il punto di vista, di aumentare significativamente i livelli di empatia, di leggere meglio i problemi di comprensione, e quindi di trovare soluzioni ai medesimi.

 

Ci manca la cultura di genere: impariamo dai più giovani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 25 settembre 2022, editoriale, p.1

L’autonomia non è per domani. Forse, per dopodomani.

Difficilmente l’autonomia sarà approvata nel primo consiglio dei ministri del nuovo governo, figlio del risultato elettorale prossimo venturo. Al contrario, è destinata ad allontanarsi nel tempo, anche se sarà solo uno slittamento provvisorio. Non perché non sia un obiettivo politico in sé: lo è e lo rimane, e le regioni interessate sapranno fare le dovute pressioni, a cominciare dal Veneto. Ma perché sarà inevitabilmente subordinata ad altri obiettivi politici, o meglio bilanciata con essi.

Con l’attuale governo tecnico, sostenuto da una amplissima maggioranza politica, l’autonomia differenziata era raggiungibile. La cosiddetta bozza Gelmini era già stata considerata accettabile dalle regioni interessate, e il sostegno partitico era trasversale, dunque l’approvazione sicura, perché sostenuta da tutti i partiti della maggioranza, Movimento 5 Stelle incluso. Ora non è più così. L’annunciato trionfo elettorale del centrodestra, al cui interno ci sono i partiti che più hanno a cuore l’obiettivo dell’autonomia, paradossalmente ne allontanerà almeno temporaneamente l’approvazione: per una dinamica legata agli equilibri interni alla coalizione, più che per il ruolo delle opposizioni. Non per le ragioni evocate in passato: le differenze tra una Lega autonomista e Fratelli d’Italia centralista. Di fatto non è più così: sia perché la Lega è diventata negli anni partito nazionale e non più solo territoriale, sia perché si annuncia per Fratelli d’Italia un plebiscito elettorale anche nelle regioni del nord che l’autonomia l’hanno sempre richiesta, come il Veneto, e quindi sarà una bandiera sostenuta anche da questo partito. Ma semplicemente perché Fratelli d’Italia in particolare (che, stando ai sondaggi, sarà di gran lunga il partito maggiore, e del governo otterrà la premiership) vuole arrivare ad approvare anche il presidenzialismo: e le due riforme – entrambe importanti ed entrambe di notevole impatto costituzionale – avranno bisogno della costruzione di delicati e complessi bilanciamenti, che richiederanno tempo e sapienza giuridica per essere approvati.

Non solo: poiché il governo non sarà più tecnico e in qualche modo di unità nazionale, i partiti che resteranno all’opposizione avranno meno interesse a giocare un ruolo costruttivo. Anche perché se sull’autonomia il Partito Democratico aveva assunto un indirizzo sostanzialmente favorevole (ricordiamo che l’autonomia differenziata è richiesta anche dall’Emilia-Romagna, governata dal PD), sul presidenzialismo le questioni saranno molto più complesse, e l’opposizione maggiore. Senza contare che il M5S, che nell’ambito del governo Draghi – che sosteneva – avrebbe votato a favore, in futuro, poiché la sua sopravvivenza sarà dovuta soprattutto al voto di protesta del Sud, è probabile che si sfili.

Non si tratta dunque di un abbandono del progetto, anche perché l’autonomia è nel programma elettorale della coalizione che verosimilmente governerà l’Italia dopo le elezioni, e oltre ai partiti maggiori la sostiene anche Forza Italia. Le regioni che la vogliono attiveranno inoltre le attività di lobbying necessarie. Ma di un rinvio temporaneo inevitabilmente sì. Ed è bene saperlo, per non alimentare aspettative che rischierebbero di essere disilluse. L’autonomia in qualche modo si farà: ormai è nella logica delle cose. Semplicemente, non sarà per domani. Probabilmente, per dopodomani.

Come non capire i giovani. La politica che diventa farsa su Tik Tok

Tutti su Tik Tok. Con sei anni di ritardo sulla sua invenzione (a dimostrazione del loro tempismo), quando già ha raggiunto in Italia il tetto di una decina di milioni di iscritti, i politici italiani scoprono improvvisamente il social network cinese su cui si possono caricare brevi video, che, si dice, spopola tra i giovani. E in una settimana o giù di lì aprono tutti (tutti quelli che già non ce l’avevano) il loro account: con l’idea di raggiungere i giovani dove stanno, ovvero nei social network per loro più interessanti (Facebook di iscritti in Italia ne ha 35 milioni, ma è roba da boomer; Twitter 11 milioni ma è una bolla di adulti che si presumono addetti ai lavori della politica).

Il problema è come i nostri politici si rivolgono ai giovani. Fondamentalmente, prendendoli per scemi (o scambiandoli in blocco per pre-adolescenti ottusi con meno neuroni di un’ameba), ci vanno con contenuti pseudo-spiritosi, triviali, perfino imbarazzanti (per chi li pubblica), finendo per farsi prendere in giro e allontanando ulteriormente i giovani dalla politica. Del resto, assistendo a questi preclari esempi di comunicazione, non potrebbero certo prendere la politica per una cosa seria. E così, la nuova riserva di caccia al voto dell’elettorato giovanile, come noto meno attivo e presente di quello adulto (in cifra assoluta, perché sono pochi; ma anche in percentuale, perché votano meno), illusoriamente attivata nel tentativo di riconquistare voti o addirittura motivare militanza, si risolve in una ridicola eterogenesi dei fini. Il politico che affannosamente corre all’inseguimento del presunto giovane, di cui ha un’immagine tutta sua, rincorrendo l’astensionismo giovanile per riportarlo nell’urna, finisce così per produrre astensionismo ulteriore.

Tra l’altro, ci sarebbe da riflettere su questa bulimia da social dei politici. Non solo per il narcisismo di cui è segno: che, certo, è figlio dell’epoca. Ma anche per il desiderio nemmeno nascosto di essere presenti solo laddove non c’è possibilità di interlocuzione vera, ma solo di messaggio a senso unico, senza possibilità di confronto e ancor meno di contraddittorio (mostrando di usare i nuovi social media come fossero i vecchi mass media unidirezionali con cui sono cresciuti loro). Non a caso quasi nessuno si incarica di rispondere ai commenti: postano il loro contenuto (il cui specifico, spesso, non è di dire qualcosa di minimamente significativo, ma solo di esserci), e poi lasciano a scannarsi le rispettive tifoserie.

Che poi lo scopo sia solo e del tutto strumentale (ma, purtroppo per loro, si vede), lo dimostra il fatto che nei social dei giovani non si propongono contenuti (anche politici: proposte, programmi) che li possano riguardare. Se infatti questi sono tutti a base di favori ai pensionati o ai lavoratori adulti (tipo quota 41), e comunque tutti implicano colossali sfondamenti – più che scostamenti – di bilancio, che non farebbero che produrre ulteriore debito che a pagare saranno precisamente i giovani, peraltro destinati in larga misura a non beneficiare delle misure proposte, hai voglia a rivolgerti a loro sperando di sedurli con un sorriso impacciato, di blandirli con una caramella semiotica o di farli ridere con una barzelletta (peraltro, tutto molto old style).

Oltre tutto i giovani non sono come li immaginiamo o li immagino i politici: bisognosi solo di cibo intellettuale premasticato. Al contrario, quello, come noto, è più utile agli anziani. Contrariamente a quello che si pensa, i giovani non sono affatto come li descriviamo. Leggono di più degli adulti: anche libri. Viaggiano di più. È la generazione con il più alto livello di istruzione che si sia mai avuta. Quella con la maggiore frequentazione con lettura e scrittura. Sono gli anziani, quelli la cui dieta informativa è spesso basata su un unico medium, la televisione, i più esposti a messaggi ipersemplificanti.

I giovani sono figli della complessità. Per loro i social sono piattaforme come tante, e non ne frequentano una sola, ma molte, in contemporanea, per soddisfare bisogni o sviluppare interessi ed esigenze diverse: sociali e relazionali, di comunicazione e discussione, culturali e di ricerca di informazioni, di puro divertimento. Per questo diffidano della politica che gli propongono. Non è qualunquismo. In vena di provocazione, mi azzarderei perfino a definirlo, al contrario, un ben fondato senso di superiorità rispetto al mondo adulto. Che ci ha portato dove ci ha portato. E per provare a far dimenticare i suoi guasti si diverte, come uno scemo, su Tik Tok.

 

La politica che (non) fa Tik Tok, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 settembre 2022, editoriale, p.1

Contro gli sbarchi incontrollati, gestire l’immigrazione regolare. Intervista Radio 1

Contro gli sbarchi incontrollati e l’immigrazione irregolare, gestire l’immigrazione regolare e i processi di integrazione.

Nel nostro interesse, e nell’interesse di chi arriva.

In quest’intervista a Radio Anch’io sintetizzo in un audio di 9 minuti le basi di quella che potrebbe essere una diversa narrazione sull’ #immigrazione e gli #sbarchi a #Lampedusa e altrove: https://av.mimesi.com/play?ij=true&v=44357/ffa3c49c-67f4-4cb0-af33-d1a96231dc6f.mp3

L’istinto gregario: il terribile conformismo della politica

In quello che molti hanno definito il tradimento del Nord (la fiducia tolta dalle forze politiche che pretendono di rappresentare il territorio a un presidente del consiglio che tutte, ma proprio tutte, le categorie economiche e professionali, e moltissime articolazioni sociali del medesimo territorio – e d’altrove – volevano fortissimamente che rimanesse al governo) c’è un aspetto che non sottolinea nessuno: che è umano, prima che politico.

Colpisce, delle vicende di questi giorni, la caratura del ceto politico: composto quasi senza eccezioni di yesmen e yeswomen (Sciascia li avrebbe definiti ominicchi, o più probabilmente quaquaraqua) che, pur non essendo d’accordo con quella scelta, non spendono una parola contro di essa, e anzi la giustificano a posteriori (mentendo sapendo di mentire), oltre ad averla obbedientemente votata. Sembra quasi che la politica produca un’antropologia propria: un tipo umano che è sostanzialmente l’opposto di quello che, almeno a parole, la maggior parte di noi (e di loro) vorrebbe essere, e vorrebbe che i propri figli diventassero.

Nessuno (o quasi) di noi – o di quelli tra noi che hanno un minimo di strumenti cognitivi (che non necessariamente hanno a che fare con il livello di istruzione: è un sapere, anzi una sapienza, che molti possiedono come dote naturale) – educherebbe i propri figli all’obbedienza cieca, pronta e assoluta. Passiamo anni (e leggiamo libri, e facciamo corsi per genitori, e consultiamo psicologi) per imparare a farne degli individui adulti, autonomi, indipendenti, critici. E probabilmente raccontiamo di esserlo noi stessi, e cerchiamo di esserlo, nella nostra vita familiare e lavorativa, nelle nostre scelte, nei limiti del possibile. Ma quando si entra in politica, questo valore, questa virtù, sparisce. Improvvisamente sappiamo solo “obbedir tacendo” (e persino, in qualche caso, “tacendo morir”: se non altro di vergogna), delegando tutto al capo, che decide in maniera solitaria, e adeguandoci. Senza porci nemmeno la domanda se è giusto così, o che figura ci facciamo davanti al mondo, e magari anche davanti ai nostri figli.

È un dato trasversale, che non riguarda solo alcune forze politiche (semmai è ironico se chi non pratica l’autonomia di pensiero richiede invece autonomia per il proprio territorio: poiché c’è sempre un rapporto tra mezzi e fini, non adeguare i propri comportamenti ai valori che si rivendicano è un indicatore per capire se sono solo strumentali, o meno). Ma in questi giorni l’abbiamo visto all’opera in varie forze politiche, e in passato, a seconda delle questioni, più o meno in tutte. È un elemento, dunque, costitutivo della politica. Che tuttavia dovrebbe farci riflettere, e innescare qualche domanda in più: sul senso di una politica vissuta in questo modo. Non c’è disciplina di partito che tenga, in circostanze particolarmente gravi (l’abbiamo imparato a nostre spese nei periodi di dittatura: persino in casi estremi, che sfidano la propria coscienza, è spesso possibile dire il proprio sì o il proprio no, obbedire a un ordine o a una legge ingiusta o rifiutarsi di farlo). Eppure la manifestazione del dissenso (si può almeno dire la propria, in dissenso con la linea del partito, ma poi votare, appunto, per disciplina di partito) è merce sempre più rara. E quello che sorprende, appunto, non è tanto che accada: ma che venga accettato come normale, e che anche i militanti e gli elettori rivotino poi le stesse persone. Quasi che avessimo riconosciuto in loro l’istinto gregario che è anche in noi.

Un grande economista, Albert Hirschman, negli anni ’70 scrisse un saggio fondamentale, in cui mostrava le logiche dei due comportamenti dissenzienti fondamentali: la “voice” e la “exit”. La prima consente di articolare meglio il proprio pensiero, spiegare le proprie ragioni, indicare dove sta l’errore. La seconda è la presa d’atto che non ci si ritrova più nelle ragioni delle scelte fatte (o più banalmente che il prodotto non piace più), e si va via (o si sceglie un altro prodotto). Bene, nella vicenda della fiducia al governo di “voice” non se ne è praticamente sentita: i leader hanno fatto le loro scelte in solitaria, e molto in fretta (che, come noto, è sempre cattiva consigliera). Mentre si sono visti alcuni esempi di “exit” a posteriori: che tuttavia fanno eccezione (e se ne parla) precisamente perché sono rari.

 

Un ceto politico composto da yesmen, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” e “Corriere di Verona”, 24 luglio 2022, editoriale, p.1

Il vescovo, il prete e l’ora di religione: lezioni dal caso Verona

Il vescovo di Verona, mons. Zenti, ha scelto di uscire male dalla storia e dalla vita pubblica della città: esautorando dall’insegnamento un prete che ha osato criticare la sua grossolana sortita pre-elettorale in favore del candidato sindaco del centro-destra.

Il casus belli è noto: prima del ballottaggio mons. Zenti ha scritto una lettera ai preti della diocesi in cui poco velatamente invitava a votare usando come criterio alcune “frontiere prioritarie”, come la “famiglia voluta da Dio e non alterata dall’ideologia del gender”, l’aborto e l’eutanasia, la difesa della scuola cattolica. Il vescovo ha cosmeticamente mascherato il suo patente appoggio al centro-destra (che aveva un precedente nelle elezioni del 2015, in cui aveva esplicitamente invitato a votare una candidata leghista) citando anche la disoccupazione, le povertà, la disabilità, l’accoglienza dello straniero: ma tutti hanno perfettamente capito dove voleva andare a parare, tanto che lo stesso candidato del centro-destra, Sboarina, ha fatto ampio riferimento, nel suo ultimo videomessaggio, proprio alla fantomatica ideologia gender (e a modo suo agli immigrati, dicendo che la sinistra avrebbe riempito Verona di campi rom, clandestini, degrado e abusivi), senza che la cosa gli abbia portato fortuna. Un prete e insegnante di religione noto in città, don Marco Campedelli, ha scritto una lettera aperta al vescovo, criticandone le sortite, finendo sospeso dall’insegnamento. Al di là di come la Curia sta oggi tentando di mascherare la sua posizione (e magari si finirà per sospendere la sospensione, per eccesso di clamore e palese effetto boomerang), la vicenda è interessante, e ha valenza non solo locale, per diversi ordini di motivi.

Il primo è il diritto stesso di critica all’interno della chiesa. Se una posizione dissonante rispetto all’autorità è considerata lesa maestà, se ne deduce per converso che l’unica posizione ammessa, apprezzata e premiata è il conformismo acritico, con tutti i difetti connessi: ipocrisia, servilismo, mentalità da yesman (in italiano suona leccapiedi, in dialetto basabanchi). Del resto è l’ideologia implicita nella stessa idea di appello al voto da parte di un vescovo o di un prete: si chiama clericalismo, e presuppone che il clero abbia un ruolo, una responsabilità e un potere maggiore dei laici, e che ne sappia di più anche sulla vita sociale e politica. L’ironia sta nel fatto che il clericalismo (idea pre-conciliare e paternalistica) è ancora fortemente presente nella chiesa, pur essendo del tutto depotenziato nella realtà: il voto cattolico non esiste sostanzialmente più, e la capacità di influenzare gli eventi politici ridotta al lumicino per scelta autonoma dei laici (come dimostra la stessa vicenda veronese).

Ma questa vicenda ci dice molto anche sulla questione dell’insegnamento della religione: che ancora, incongruamente, ha un carattere di ircocervo (animale favoloso, che la Treccani ci ricorda essere metafora di cosa assurda, inesistente, chimerica), oggi non più accettabile. Con insegnanti pagati dallo stato, ma un curriculum formativo deciso dalla chiesa cattolica, e l’obbligo del gradimento della chiesa locale per insegnare, con ingerenze anche nella vita e nella moralità privata dei docenti. È del tutto evidente che tale situazione è oggi insostenibile. Perché non siamo più tutti naturaliter cattolici, perché sempre più persone rifiutano questa sostanziale imposizione, e perché siamo in una società religiosamente plurale, e con un’ampia presenza di non credenti e non praticanti. Ed è interessante che sia proprio dall’interno del mondo cattolico più avvertito che si segnala – da anni – la necessità di passare dall’ora di religione (sostanzialmente obbligatoria dato che l’alternativa, a dispetto della normativa, è quasi sempre il nulla – ma anche ridotta, spesso, per poter coinvolgere tutti, a vaghe discussioni, e declassata a materia senza voto) all’ora delle religioni, gestita dallo stato, con la stessa dignità delle altre materie, capace di formare gli studenti al pluralismo religioso, ma anche alla stessa riflessione sul fatto religioso, oggi scandalosamente assente. Il risultato controdeduttivo della situazione attuale, infatti, è la sconcertante ignoranza religiosa degli italiani. Una perdita secca: anche per la chiesa cattolica.

 

Il vescovo e le ore di religione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” e “Corriere di Verona”, 2 luglio 2022, editoriale p.1