Fine vita: modello veneto, modello emiliano
La regione Emilia-Romagna, con una delibera, ha stabilito che chi chiede il suicidio assistito (in cui, lo ricordiamo, è il paziente ad autosomministrarsi il farmaco letale), ha diritto ad ottenerlo entro tempi certi (42 giorni), rispettando determinate condizioni. L’atto recepisce una sentenza della Corte costituzionale del 2019, rimasta finora inapplicata, tanto che l’associazione Luca Coscioni ha raccolto in ogni regione le firme per chiedere l’approvazione di una norma specifica. La sentenza, infatti, dichiara non perseguibile penalmente l’assistenza al suicidio assistito di chi lo chiede; spetta tuttavia alla politica attuarne nella pratica le linee di indirizzo. Ma a livello nazionale – per ignavia, come in molti altri casi – persiste il vuoto legislativo.
Il Veneto aveva scelto la strada dell’approvazione di una legge regionale, ma, nonostante l’appoggio del governatore Zaia, il consiglio regionale l’ha respinta. L’Emilia-Romagna, come si è visto, ha scelto una strada diversa: che è stata criticata sia dall’opposizione di centro-destra che dalla stessa associazione che ha raccolto le firme, che avrebbe preferito una discussione pubblica sul tema.
In termini di metodo non abbiamo una opinione precisa riguardo a quale sia la strada migliore. Visto che il diritto in qualche modo c’è già e si tratta solo di applicarne l’esercizio, evitando l’incongruenza di applicazioni differenziate tra città e città e città e tra ospedale e ospedale, anche all’interno della stessa regione, una discussione pubblica anche locale – in attesa che la faccia il parlamento nazionale – è pleonastica, e una delibera applicativa può benissimo sostituirla: per dirla in sintesi, il meglio (la discussione democratica) rischia di essere nemico del bene, e a volere troppo si rischia di non avere nulla. Anche perché, come si è visto nel caso Veneto, la discussione finisce per non avere nulla a che fare con il caso concreto, e si impaluda nelle nebbie dell’ideologia e di vaghissimi principi mal motivati, ricorrendo a espressioni vuote di contenuto, come un generico diritto alla vita che la norma non mette in alcun modo in questione (semmai, se proprio si pensa sia così, lo fa la sentenza della corte, e su quel piano e a quel livello bisognerebbe discutere). Per spiegare il paradosso in cui siamo, è un po’ come se, una volta approvata una norma sui limiti di velocità, chi non è d’accordo si limitasse a non approvare le delibere applicative: rimarrebbe la norma ma non si avrebbe la sua applicazione. Mentre a chi critica la decisione emiliana da destra, cercando di impedire l’applicazione certa e omogenea del diritto (come è stato fatto anche in Veneto), verrebbe da ricordare che l’unica cosa seria da fare, allora, sarebbe riempire il vuoto legislativo con una norma approvata dal parlamento nazionale: ma è precisamente questa la responsabilità che la politica non vuole assumersi, pur avendocela.
A noi, in un certo senso, l’approccio emiliano, più pragmatico e meno ideologico, ricorda differenze simili in altri ambiti, tra Emilia-Romagna e Veneto. Si pensi all’autonomia. In Veneto un grande squillar di trombe, la celebrazione di un referendum, la pretesa di applicarla a tutte le materie possibili e immaginabili, per principio; in Emilia-Romagna nessun referendum, pochissima retorica, nessun uso elettorale dell’argomento, ma la medesima richiesta, limitata tuttavia ad alcune poche materie in cui si è convinti di poter ragionevolmente far meglio dello stato. E si pensi all’economia: le imprese innovative ci sono dall’una e dall’altra parte, ma in Veneto si dorme ancora sugli allori del non più esistente modello Nordest, ripetendo debolmente la retorica su di esso e una defunta presunzione di essere migliori, mentre in Emilia il pragmatismo e la capacità di costruzione di rapporti con le istituzioni (regione e comuni) e l’università hanno creato un ecosistema il cui effetto è che le imprese crescono di più, fanno più export, producono più occupazione, elaborano più brevetti, offrono salari più elevati, producono meno emigrazione qualificata (anzi, la importano).
Ecco, forse anche nella traduzione dei valori in politica (e la discussione bioetica ne è un ottimo esempio), dovremmo riflettere sul pragmatismo emiliano. Giusto o sbagliato che possa essere, un modello, nella pratica, funziona, producendo un risultato pratico, l’altro no. E forse vale la pena di rifletterci.
in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 febbraio 2024, editoriale, p.1