Fine vita: modello veneto, modello emiliano

La regione Emilia-Romagna, con una delibera, ha stabilito che chi chiede il suicidio assistito (in cui, lo ricordiamo, è il paziente ad autosomministrarsi il farmaco letale), ha diritto ad ottenerlo entro tempi certi (42 giorni), rispettando determinate condizioni. L’atto recepisce una sentenza della Corte costituzionale del 2019, rimasta finora inapplicata, tanto che l’associazione Luca Coscioni ha raccolto in ogni regione le firme per chiedere l’approvazione di una norma specifica. La sentenza, infatti, dichiara non perseguibile penalmente l’assistenza al suicidio assistito di chi lo chiede; spetta tuttavia alla politica attuarne nella pratica le linee di indirizzo. Ma a livello nazionale – per ignavia, come in molti altri casi – persiste il vuoto legislativo.
Il Veneto aveva scelto la strada dell’approvazione di una legge regionale, ma, nonostante l’appoggio del governatore Zaia, il consiglio regionale l’ha respinta. L’Emilia-Romagna, come si è visto, ha scelto una strada diversa: che è stata criticata sia dall’opposizione di centro-destra che dalla stessa associazione che ha raccolto le firme, che avrebbe preferito una discussione pubblica sul tema.
In termini di metodo non abbiamo una opinione precisa riguardo a quale sia la strada migliore. Visto che il diritto in qualche modo c’è già e si tratta solo di applicarne l’esercizio, evitando l’incongruenza di applicazioni differenziate tra città e città e città e tra ospedale e ospedale, anche all’interno della stessa regione, una discussione pubblica anche locale – in attesa che la faccia il parlamento nazionale – è pleonastica, e una delibera applicativa può benissimo sostituirla: per dirla in sintesi, il meglio (la discussione democratica) rischia di essere nemico del bene, e a volere troppo si rischia di non avere nulla. Anche perché, come si è visto nel caso Veneto, la discussione finisce per non avere nulla a che fare con il caso concreto, e si impaluda nelle nebbie dell’ideologia e di vaghissimi principi mal motivati, ricorrendo a espressioni vuote di contenuto, come un generico diritto alla vita che la norma non mette in alcun modo in questione (semmai, se proprio si pensa sia così, lo fa la sentenza della corte, e su quel piano e a quel livello bisognerebbe discutere). Per spiegare il paradosso in cui siamo, è un po’ come se, una volta approvata una norma sui limiti di velocità, chi non è d’accordo si limitasse a non approvare le delibere applicative: rimarrebbe la norma ma non si avrebbe la sua applicazione. Mentre a chi critica la decisione emiliana da destra, cercando di impedire l’applicazione certa e omogenea del diritto (come è stato fatto anche in Veneto), verrebbe da ricordare che l’unica cosa seria da fare, allora, sarebbe riempire il vuoto legislativo con una norma approvata dal parlamento nazionale: ma è precisamente questa la responsabilità che la politica non vuole assumersi, pur avendocela.
A noi, in un certo senso, l’approccio emiliano, più pragmatico e meno ideologico, ricorda differenze simili in altri ambiti, tra Emilia-Romagna e Veneto. Si pensi all’autonomia. In Veneto un grande squillar di trombe, la celebrazione di un referendum, la pretesa di applicarla a tutte le materie possibili e immaginabili, per principio; in Emilia-Romagna nessun referendum, pochissima retorica, nessun uso elettorale dell’argomento, ma la medesima richiesta, limitata tuttavia ad alcune poche materie in cui si è convinti di poter ragionevolmente far meglio dello stato. E si pensi all’economia: le imprese innovative ci sono dall’una e dall’altra parte, ma in Veneto si dorme ancora sugli allori del non più esistente modello Nordest, ripetendo debolmente la retorica su di esso e una defunta presunzione di essere migliori, mentre in Emilia il pragmatismo e la capacità di costruzione di rapporti con le istituzioni (regione e comuni) e l’università hanno creato un ecosistema il cui effetto è che le imprese crescono di più, fanno più export, producono più occupazione, elaborano più brevetti, offrono salari più elevati, producono meno emigrazione qualificata (anzi, la importano).
Ecco, forse anche nella traduzione dei valori in politica (e la discussione bioetica ne è un ottimo esempio), dovremmo riflettere sul pragmatismo emiliano. Giusto o sbagliato che possa essere, un modello, nella pratica, funziona, producendo un risultato pratico, l’altro no. E forse vale la pena di rifletterci.

in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 febbraio 2024, editoriale, p.1

Giovani migranti e violenza di genere. Una riflessione sui fatti di Catania

Lo stupro di Catania è un fatto spregevole: di cui è doveroso parlare, anche perché ci spinge a prendere posizione, a schierarci. Una parte della politica e della pubblica opinione, anche da noi, è già arrivata alle conclusioni: è la “prova” che gli stranieri non si possono integrare, che c’è in corso una guerra di civiltà, per cui vanno respinti. E se provassimo, invece, a cambiare punto di vista e narrazione?
L’evento è noto. Un gruppo di sette ragazzi, quasi tutti minorenni, di origine egiziana, sbarcati sulle nostre coste come MSNA (così il gergo burocratico definisce i minori stranieri non accompagnati) ha sequestrato una ragazzina di tredici anni nei bagni pubblici di un parco di Catania, ha immobilizzato il suo fidanzato anch’esso minorenne, e l’hanno violentata in due, mentre gli altri stavano a guardare. Un atto schifoso, coraggiosamente denunciato dalla vittima, per il quale tutti noi vogliamo che paghino, e duramente, i colpevoli.
L’immigrazione c’entra e non c’entra (anche se viene facile additarla come capro espiatorio autoevidente): pochi mesi fa, sempre in Sicilia, questa volta a Palermo, sette ragazzi italiani hanno sequestrato una ragazza in un cantiere, e l’hanno violentata in sei, mentre uno, che la conosceva, filmava il tutto. Con la stessa logica, avremmo dovuto lanciare una campagna contro, che so, i palermitani. Estremizzando il paradosso, potremmo dire che gli immigrati si sono integrati così bene che hanno copiato da noi. Naturalmente non è così. Semmai entrambi gli episodi ci fanno riflettere, e ce n’è davvero bisogno, sulla maschilità tossica, la violenza di branco, la logica del potere di genere e le sue perversioni, la povertà e la sopraffazione insiti nell’immaginario sessuale maschile, secoli di prevaricazione diffusa e quotidiana sulle donne, un’idea predatoria del sesso e forse dell’affettività, il ruolo della pornografia, e tante altre cose – sgradevoli, orribili – su cui è effettivamente doveroso riflettere. Prendiamo tuttavia per buona la cornice interpretativa per cui l’immigrazione giochi un ruolo. In che modo? In come la percepiamo, innanzitutto: in come facilmente attribuiamo agli altri, senza conoscerli, i difetti che forse condividiamo con loro. Ma anche, è giusto rilevarlo, per l’arretratezza di certi costumi, che abbiamo ben ragione a stigmatizzare, in cui la sopraffazione misogina è spesso ancora più pervasiva e quotidiana, e la differenza di potere più accentuata: che tuttavia non sono monopolio o esclusiva di nessuno, e hanno a che fare più con l’arretratezza economica e lo sviluppo civile che non con il colore della pelle, la religione, o la banale provenienza da altrove. Ugualmente, prendiamo il caso dei MSNA, categoria di cui fanno parte i ragazzi di Catania. Constatiamo che sono invenzione recente: in passato erano quasi inesistenti (c’erano i minori, sì, ma al seguito delle famiglie). Oggi i canali regolari di ingresso per migranti non ci sono praticamente più (li abbiamo chiusi noi), con gli adulti siamo severi e cerchiamo di respingerli, con i minori – ipocritamente ma giustamente – molto meno, per cui da alcuni anni a questa parte il fenomeno è in tumultuosa crescita, e sta diventando una piccola bomba sociale a carico della collettività. Perché noi giustamente li iscriviamo a scuola e li mettiamo in comunità (o, almeno, lo facevamo, quando i numeri erano modesti), ma loro spesso vengono con un obiettivo diverso, di mantenimento della famiglia, e non di rado – salvo i pochi meritoriamente salvati da chi se ne occupa – finiscono per scappare dall’una e dall’altra. Se va bene, per ingrossare le fila del lavoro minorile e irregolare. Se va male, per entrare nel mercato della prostituzione e dello spaccio. Ecco, forse una domanda è lecito farsela: se prima non esistevano e oggi sì, non è che un ruolo ce l’ha il modo in cui gestiamo i flussi migratori? E la soluzione è persistere nella chiusura dei canali regolari, o al contrario rovesciare la logica, aprendoli e controllandoli? Spendere sempre meno, come si sta facendo, in politiche di integrazione, tagliando persino i corsi di conoscenza della lingua e della cultura (in cui ci sta anche una diversa concezione dei rapporti di genere), o al contrario spendere di più? E ancora, mettere i MSNA in centri invivibili (visitate quelli presenti nella vostra città, anche in Veneto), ammucchiati in condizioni igieniche e di sovraffollamento allucinanti, senza iniziative e senza progetto, allo sbando, alla rinfusa, o farsi finalmente carico del fenomeno? Che vuol dire anche, semplicemente, occuparsene, visto che la Sicilia ne ospita oltre un quinto, seguono Lombardia, Emilia-Romagna, Calabria, Campania, Puglia, Lazio, Toscana, Friuli, Piemonte, Liguria, e solo al dodicesimo posto c’è il Veneto, appena prima di Abruzzo, Marche, Basilicata, Molise…

Giovani migranti e violenze, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 febbraio 2024, editoriale, p.1-3

Fine vita: il festival dell’ipocrisia che ha sconfitto Zaia

Bisogna dare atto al governatore Zaia di averci messo la faccia, e di avere avuto il coraggio di andare contro la sua stessa maggioranza: primo e unico presidente di regione, fino ad ora, ad averlo fatto. Prima anche, quindi, dei governatori di centro-sinistra.
Forse ha giocato anche il limite ai mandati. A fine corse è possibile assumere posizioni più coraggiose, tanto, non dovendo essere rieletti, non si è obbligati a corteggiare i propri elettori. Peraltro, in questo caso è una scelta vantaggiosa, che pur facendogli perdere qualche sostegno interno, gli consente di conquistare praterie di consenso personale fuori dal suo recinto politico naturale, visto che i sondaggi sono unanimi nel mostrare che la maggioranza degli italiani, e anche la maggioranza dei veneti (che, da un pezzo, non è più la Vandea italiana), è a favore della regolamentazione del suicidio assistito. Ma la sua posizione non è frutto di calcolo: Luca Zaia ha mostrato in questi anni un’encomiabile coerenza sul tema dei diritti civili – si pensi alle sue posizioni sulle tematiche LGBTQ+. Con questa scelta Zaia diventa anche una figura nazionale di riferimento, e rafforza significativamente un ruolo e una traiettoria politica che ha sempre dichiarato di considerare legata strettamente al territorio, proiettandosi volente o nolente su un palcoscenico molto più ampio.
Il voto contrario di ieri sancisce anche la trasformazione definitiva della Lega da partito laico (quale l’aveva voluto Bossi, che si era inventato solo in un secondo tempo una improbabile consulta cattolica affidandola a Irene Pivetti, che peraltro ha smesso di esistere quasi subito) a ultracattolico. Almeno nominalmente, perché poi, alla maniera del rosario di Salvini (anche lui in origine un laicissimo comunista padano) si tratta di un cristianesimo esibito: quanto vissuto e pregato, è materia di valutazione più complessa e opinabile. Ma è tendenza tipica degli identitaristi di oggi – si pensi a quanto avviene oltreoceano – la propensione a pagare alla religione quello che gli inglesi chiamano lip service, che non è propriamente un attestato di coerenza. Dimenticando peraltro che anche i cattolici – lungi dall’essere rappresentati dai gruppuscoli vociferanti di questi giorni, che tuonano e minacciano sfracelli elettorali ma sono composti da poche manciate di militanti – sono divisi sostanzialmente a metà, così come lo sono i laici, su questi temi.
Quanto accaduto ieri è quindi un’occasione persa della politica regionale: anche di opposizione, visto il voto contrario pure di una consigliera del PD, diventata determinante nell’affossare una legge che non è passata, per l’appunto, per un voto. Il consiglio regionale ha mostrato ancora una volta di interessarsi poco di cose che interessano invece molto gli elettori, e di pensarla diversamente da loro: rendendo vacuo domandarsi perché la fiducia nella politica cali e l’astensionismo cresca.
Il voto contrario in definitiva è ascrivibile a ideologia, ipocrisia, e anche qualche evitabile grettezza. Quest’ultima l’ha mostrata chi è ricorso persino all’argomentazione del costo, e del conseguente risparmio che il respingimento della proposta di legge consente: in realtà modestissimo, perché riguarda pochissimi casi, e irrilevante rispetto al bilancio sanitario della regione, oltre che moralmente discutibile. L’ipocrisia, venata da ideologia, l’ha mostrata chi ha argomentato e votato, apparentemente, senza aver letto nemmeno i dispositivi e le sentenze, evocando un vago diritto alla vita (come se il diritto a disporne in casi drammatici e dolorosissimi non lo fosse: lo è invece di più, perché è il diritto a una vita vivibile) o un’ancor più evanescente difesa della famiglia, che la legge non metteva in questione in nessun modo. Facendo finta di non vedere che le cose resteranno esattamente come stanno, con il diritto al suicidio assistito (che non ha nulla a che fare con l’eutanasia), garantito e non punibile: ma che, semplicemente, sarà di più lunga, incerta e difficile applicazione in termini di tempistica, e diverso da ospedale a ospedale, da città a città. Cosa, naturalmente, insensata.

Il coraggio di Luca, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 18 gennaio 2024, editoriale, p. 1

Niente Natale dove è nato il Natale: Palestina senza pace

Se c’è un posto nel mondo dove sicuramente non sarà Natale, questo è dove è nato il suo protagonista: Betlemme, la Cisgiordania, la parte di Israele che noi chiamiamo Terra Santa, e la Palestina tutta (qualunque territorio questa espressione racchiuda), a cominciare da Gaza. Un fazzoletto di terra, insanguinato da decenni, che oggi conosce uno dei suoi momenti più alti di violenza e disumanizzazione. Tuttavia, se vogliamo evitare di indulgere in una facile retorica, affettatamente nobile ma di fatto vacua e non veramente partecipe, l’unica cosa decente e intelligente che possiamo fare noi, che il Natale lo passeremo al caldo, tra affetti e regali, è trarne qualche lezione.

La prima è che nessuno è al sicuro: nemmeno noi. La guerra è tornata vicino e dentro i confini dell’Europa, e con essa tornerà (è già tornata) la percezione di insicurezza, le proteste e i conflitti tra fazioni contrapposte, l’ossessione del terrorismo, tra ragionevoli timori e paranoie attentamente costruite.

È l’occasione, per noi, per fare pulizia: a cominciare dalla pulizia del linguaggio, sulla padronanza del quale, e sul modo di usarlo, abbiamo tutta la responsabilità del mondo. Possiamo legittimamente provare una sensazione di impotenza rispetto a scenari geopolitici tanto più grandi di noi. Ma non abbiamo il diritto di provarne quando ne parliamo, e ci ragioniamo sopra – che, già, sono due cose qualitativamente diverse.

Il primo invito allora è a ragionare prima di parlare. Che è un’attività che si fa da soli. Cercandosi fonti di informazione attendibili, e non avendo paura di esprimere opinioni dissonanti da quelle del mainstream mediatico e politico. Cercando di capire che possiamo e dobbiamo distinguere tra le responsabilità dei rispettivi carnefici, ma dobbiamo pure esprimere eguale solidarietà alle vittime innocenti, tutte. La logica da tifo calcistico con la quale spesso affrontiamo il conflitto israelo-palestinese, abbracciando superficialmente le ragioni dell’uno o dell’altro, schierandoci (“senza se e senza ma”, come spesso si chiosa: come se vivessimo e ragionassimo in questo modo in altri ambiti della vita individuale e sociale…), ma senza troppo pensare, è profondamente dissonante rispetto all’approfondimento critico cui siamo chiamati. Fare pulizia, togliere lo sporco da dentro di noi, dai nostri ragionamenti e dalle nostre parole, vuol dire innanzitutto questo: capire, ragionare, e solo poi prendere parte, che non è la stessa cosa che prendere partito – vuol dire innanzitutto entrare in empatia, cioè sentire il dolore (pàthos) altrui, non importa di chi si tratti. Così come sapere da che parte stare non vuol dire stare sempre e necessariamente dalla stessa parte: perché la ricerca della pace, di una soluzione al conflitto, che cerchi diminuire il costo che pagano gli innocenti, vuol dire saper leggere la realtà con gli occhi dell’altro, e cercare un compromesso accettabile, costruirlo pazientemente – con i se e con i ma. Sporcandosi le mani con la fatica delle scelte e delle inevitabili incomprensioni, non tenendole pulite in un’illusione di purezza identitaria, tipica di chi si sente dalla parte giusta. Denunciando quindi, in primo luogo, gli errori e le nefandezze di quelli che sosteniamo, invece di minimizzarle e nasconderle: che è quello che fa la propaganda (bellica per definizione) – che è l’inizio della fine della ricerca della verità, anzi è il suo opposto, il vero sporco che dovremmo ostinatamente cercare di togliere dagli interstizi del nostro ragionare e del nostro agire.

Il passo successivo è naturalmente quello della solidarietà: tanto più vera se la sentiamo, prima ancora di praticarla. Se piangiamo il dolore altrui, anziché usare selettivamente le vittime (rigorosamente solo quelle della parte che sosteniamo) per colpire e accusare la parte avversa. Le vittime meritano di essere aiutate, non strumentalizzate. E quindi è giusto anche valutarne il numero (contano, per noi, anche nella misura in cui le contiamo), e con esso misurare l’immensità della tragedia che si sta consumando, capire chi la subisce in maniera maggiore, chi sta pagando il prezzo più alto.

Gandhi diceva che “il fine sta nei mezzi come l’albero nel seme”. Che non ci sono cause giuste da sostenere se il modo con cui le sosteniamo è quello sbagliato, o è viziato all’origine da una lettura parziale della situazione. Anche perché, temo, le letture acritiche, partigiane, de-umanizzanti, di sostegno a sola una delle parti in causa, ci rimbalzeranno addosso in futuro. Anche in chiave geopolitica. E non potremo dire allora di non avere responsabilità in proposito. La responsabilità delle parole e delle azioni di oggi.

Lettere dalla guerra: Betlemme senza Natale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 dicembre 2024, editoriale, p. 1

Il dolore e la presa di coscienza. Di fronte alla morte di Giulia Cecchettin.

Se la misura di un evento è la sua capacità di farci riflettere, l’assassinio di Giulia Cecchettin, la commozione, la riflessione e la mobilitazione che ne sono seguite, e infine la partecipazione corale e sentita ai funerali, hanno indubbiamente avuto un effetto trasformativo.

Certo, la violenza contro le donne e i femminicidi – nonché le culture su cui si fondano e gli squilibri di potere da cui originano – hanno una lunga storia, che purtroppo non finirà ora: ce ne saranno ancora. Ma nella storia sociale e civile, e qualche volta politica, di popoli e nazioni, ogni tanto capitano eventi spartiacque, che costringono tutti a una riflessione e a un esame di coscienza: la morte di Giulia, possiamo dirlo fin da adesso, è stato uno di questi eventi. E nel fatto che lo sia stato ha avuto un ruolo la consapevolezza forte della famiglia, del padre Gino e della sorella Elena, la loro capacità di farla diventare storia pubblica, interrogazione collettiva: grazie a loro questa morte non è stata e non sarà stata invano.

A fronte della grandezza di tutto questo, molte critiche e banalità sentite in questi giorni – su un presunto pensiero unico, sulla (ovvia) inaccettabilità delle generalizzazioni, sul fatto che la violenza in fondo c’è dappertutto e anche da parte delle donne, sulla derubricazione di quanto avvenuto a mero fatto individuale, a peculiarità solo psicologica (che ovviamente c’è) e individuale, sull’inesistenza di quello che si può chiamare patriarcato o in altro modo ma certamente è ben presente nelle nostre società, ecc. – sono totalmente irricevibili, e spesso dettate da semplice desiderio di visibilità, se non da puro gusto polemico, condito da infantilismo del pensiero.

Invece di ragionare in astratto, provo a raccontare quello che ho visto in università: l’università che Giulia (e anche il suo assassino, colui che ha così terribilmente tradito la sua fiducia) aveva frequentato e in cui avrebbe dovuto laurearsi pochi giorni dopo. Il lunedì dopo il fatto molti di noi docenti – maschi e femmine indifferentemente – avevano la voce spezzata, e facevano fatica a fare lezione: e, senza mettersi d’accordo, moltissimi l’hanno fatta su questo, parlandone con ragazze e ragazzi che non aspettavano altro, e avevano voglia e bisogno di dire la loro. La reazione, la partecipazione e la mobilitazione attiva di studentesse e anche studenti è stata spontanea, immediata, corale, sentita, emozionale, spesso legittimamente arrabbiata, per niente ideologica, tutt’altro che moralistica e politicamente schierata. Profonda, seria, autentica e matura, mi viene da dire, nonostante il forte coinvolgimento emotivo, e forse grazie ad esso. E il giorno dei funerali mi ha colpito non tanto la presenza delle ragazze (più scontata, da un certo punto di vista, anche se qualitativamente diversa da quella vista in altre situazioni, più rivendicative e di lotta, come le manifestazioni – più alta, direi), o quella di gruppi misti di ragazze e ragazzi, ma quella di giovani coppie abbracciate che credo non dimenticheranno di esserci state (anche e soprattutto quando litigheranno per questioni legate alle inerzie culturali implicite nei ruoli di genere), e ancora di più i gruppi di ragazzi arrivati insieme, e i tanti studenti, giovani adulti, uomini soli, venuti a testimoniare silenziosamente di fronte a se stessi una presenza sentita come dovuta: di fatto, a fare esame di coscienza, come individui e come collettività maschile, che deve prendersi carico del proprio ruolo e della propria responsabilità, piangendo il dolore, la sofferenza, la violenza subita ordinariamente dall’altra metà del mondo, le loro sorelle, amiche, madri, figlie, compagne, colleghe, partner.

Chi sottovaluta quanto avvenuto, o chi lo svaluta, derubricandolo a reazione di pochi, irridendola come emotiva, una cosa che passa e non lascerà tracce e conseguenze significative, dimentica che le emozioni sono ciò che ci fa letteralmente – come da etimologia – e-movere, cioè agire. E la com-mozione, il piangere insieme il dolore altrui, ne è una delle forme più eminenti ed efficaci.

 

Il nostro pianto collettivo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 dicembre 2023, editoriale, p. 1

Diritti civili: il divorzio tra politica e società

Il 74% degli italiani è favorevole all’eutanasia. Il 72,5% è favorevole alla concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati. Il 70,3% è favorevole all’adozione per i single, e il 54,3% anche per le coppie omosessuali. A proposito di mondo LGTBQ+, il 65,6% è a favore anche del matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso. Solo la gestazione per altri è respinta dalla maggioranza degli italiani, essendo sostenuta dal 34,4% della popolazione. Lo attesta il Censis, nell’annuale fotografia scattata con il suo rapporto: uno specchio del paese, non della sua classe dirigente.

In queste cifre c’è infatti tutto lo scollamento (potremmo dire il divorzio, richiamando un altro tema di diritti civili in cui la società aveva mostrato di essere più avanti dei suoi leader) tra la popolazione italiana, e la politica che dovrebbe rappresentarla – ma non lo fa. Una politica che guarda all’indietro, che ha paura di prendere qualsiasi decisione, che rinvia e procrastina, mentre la società guarda più lontano (e altrove) e va avanti, pensa, riflette, evolve, cambia idea, e deciderebbe, se lo potesse.

Tutto questo non è estraneo alle difficoltà civili, sociali, e anche economiche del nostro paese, e al suo persino sorprendente basso livello di soddisfazione (siamo ai livelli più bassi, tra i paesi europei, negli indici di felicità percepita, nonostante i patrimoni Unesco e la dieta mediterranea, e la retorica sparsa a piene meni dalla politica sul paese più bello del mondo: altro elemento di scollamento – forse è bello per i politici, molto meno per gli altri).

Sono i giovani a tirare la volata su tutti questi temi. Ma sono la popolazione meno ascoltata. Perché sono pochi. Perché, precocemente delusi, votano in percentuali inferiori. E perché, quindi, ascoltare le paure degli anziani è più facile e redditizio per la politica (non deve fare nulla: solo dar loro ragione) che non agire, fare, cambiare qualcosa. Ma anche la popolazione più matura dei rappresentati la pensa diversamente dai suoi (molto presunti, sul piano valoriale) rappresentanti.

Incidentalmente, questo scollamento produce sfiducia ulteriore, lo sfilacciarsi del patto sociale, e anche la ragionevole esterofilia che spinge molti, giovani soprattutto, non solo a guardare con invidia ai modelli sociali di altri paesi, ma proprio ad andarsene, come mostra plasticamente la crescente emigrazione, che è ancora più alta tra le categorie più istruite e più aperte al cambiamento, producendo un impoverimento ulteriore, che paghiamo a caro prezzo.

Ecco, sarebbe bello, e soprattutto utile, se la politica – anche regionale, anche locale – (e la politica tutta: anche quando era al governo il centro-sinistra, non si sono prodotti passi avanti significativi, o non abbastanza, rispetto, che so, alla cittadinanza per le seconde generazioni nate in Italia o sul matrimonio egualitario) facesse un esame di coscienza sul proprio ruolo, sui danni che su questi temi fa al paese. E si desse una mossa. Magari, chiedendo scusa per il troppo tempo perso fino ad ora.

 

Se politica e società divorziano, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 dicembre 2023, editoriale, p.1

Ironie della storia: gli albanesi e noi

Ve li ricordate, gli albanesi? Quelli arrivati con la nave Vlora, ad esempio? Ventimila persone (ventimila!) arrivate con una nave sola, l’8 agosto 1991: il più grande sbarco di immigrati della storia italiana. In gran parte furono rimpatriati con una menzogna, dicendo che li si sarebbe portati altrove, ma sempre in Italia: compensati con un paio di jeans e poco più. Ma negli anni successivi sono continuati ad arrivare.
Oggi sono quasi mezzo milione, quasi un decimo degli immigrati in Italia, e non spaventano più nessuno. Al punto che gli stessi (e gli stessi partiti) che allora e negli anni successivi non li volevano proprio, organizzavano manifestazioni contro di loro e contro gli altri immigrati, raccoglievano voti utilizzandoli come capro espiatorio di mali sociali che stavano altrove, oggi firmano accordi con il loro paese d’origine per aiutarci a gestire proprio l’immigrazione irregolare che loro rappresentavano, appena trent’anni fa. E non è solo la politica ad aver cambiato idea: il che è segno di saggezza, anche se è sospetto che sia accaduto solo quando si è visto che poteva fare comodo. È anche la gente, quella stessa che all’inizio li rifiutava, che li ha poi accolti senza problemi: lavorano e hanno creato moltissime imprese (oltre 50mila, in cui sono assunti pure molti italiani), i matrimoni misti sono tantissimi, qualcuno è stato addirittura eletto dagli italiani per rappresentare i loro interessi e governarli: come la giovane avvocatessa Sindi Manushi, oggi sindaca di Pieve di Cadore (che peraltro è riuscita anche a diventare italiana, seppur mettendoci quasi quindici anni).
Ecco, dovrebbe dirci qualcosa, questa ironia della storia, questa solo apparentemente sorprendente nemesi storica, questa rivincita silenziosa. Perché la loro storia è la storia di tutte le migrazioni: solo che non si ama ricordarla. Né si fa tesoro dell’esperienza. E nemmeno si vuole accettare che accada così anche per gli altri immigrati.
Ma torniamo agli accordi siglati con l’Albania: di fatto uno specchietto per le allodole. Non che non si debbano fare accordi con altri paesi, per governare l’immigrazione: al contrario. Ma con i paesi di provenienza e di transito: e aprendo canali regolari di ingresso, cosa che ancora non si fa, non solo demandando ad essi politiche di contenimento. La ratio di questo accordo invece è la pura esternalizzazione di una funzione: fare là quello che normalmente si fa qua. Ufficialmente con la scusa che sia funzionale. Il problema è che non lo è. Oltre a essere enormemente costoso. È un po’ come se, per risolvere il problema delle liste d’attesa in sanità, aprissimo un ospedale a Tirana, e ci portassimo medici e pazienti italiani. Qui si fa lo stesso. Si prendono degli immigrati da Lampedusa o intercettati in mare, li si portano in Albania, in una base ristrutturata a spese nostre, con un fondo di garanzia per gli acquisti e le spese correnti, si porta personale amministrativo e di polizia dall’Italia (con le indennità e i sovracosti relativi), si esaminano le pratiche – si dice – di tremila persone al mese (ma se è davvero possibile farlo in Albania, perché qua ci mettiamo anche un anno e più?): poi, i richiedenti asilo riconosciuti, li si dovranno riportare in Italia. E quelli non riconosciuti, con tutta probabilità, ce li ritroveremo comunque da noi, perché riproveranno a entrare irregolarmente via mare dall’Albania o via terra lungo la rotta balcanica. Con il risultato di aver speso una cifra assurda per gestire delle pratiche che avremmo potuto gestire con molto meno in Italia. Un risultato, tuttavia, lo si sarà ottenuto, ed è la vera ragione dell’accordo: si potrà dire al proprio elettorato che si è fatto qualcosa per liberarsi di un po’ di immigrati giudicati inutili. E questo proprio mentre le nostre imprese, il nostro turismo, la nostra agricoltura e i nostri servizi, inclusi quelli alla persona, continueranno a lamentare la carenza di immigrati utili.
Se poi l’obiettivo, come si dichiara, è dissuasivo (spaventare gli immigrati, facendo loro balenare il rischio di essere portati altrove, anziché in Italia), è pura illusione che questo possa far diminuire le partenze. Non ci riescono i muri, che producono il solo risultato di aumentare la lunghezza, la durata e la sofferenza del viaggio. Figuriamoci se ci può riuscire una deviazione in più, per persone che hanno alle spalle migliaia di chilometri di viaggio, e di deviazioni ne hanno dovute già fare molte.
Infine, se la logica è esternalizzare, cioè usare i servizi di altri paesi, facendo fare ad altri quello che noi facciamo peggio, avrei una proposta: allarghiamola. Perché non far gestire il welfare alla Svezia, la burocrazia alla Germania, la giustizia alla Francia, la scuola alla Danimarca, le tasse all’Olanda?

Ironie della storia: noi e l’Albania, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 novembre 2023, editoriale, p.1

Bilancio di un ventennio: in sintesi…

È una tentazione a cui è difficile sottrarsi quella di fare bilanci a cifra tonda. Lo facciamo nel privato, festeggiando i compleanni con lo zero con enfasi particolare. E lo facciamo nel guardare retrospettivamente al nostro passato. A quasi ogni decennio, non a caso, tentiamo di dare un significato preciso, più di quanto sia lecito fare. Per questo ricordiamo i ’60 come gli anni del boom, i ’70 come quelli della protesta, gli ’80 come il decennio del riflusso, i ’90, forse, come gli anni delle speranze deluse (nasceva la seconda repubblica, ma dagli scandali di Tangentopoli, non dalla speranza di un mondo migliore).
Gli ultimi due decenni, più che dalla politica e dai movimenti sociali, sono caratterizzati dal ruolo dirompente assunto dalle tecnologie nelle nostre vite (quasi tutti gli strumenti, le app e i social che si mangiano gran parte del nostro tempo sono progettati o introdotti nel primo decennio di questo nuovo millennio), ma anche, soprattutto nell’ultimo decennio, dalle grandi crisi: economiche prima (si comincia con quella finanziaria del 2008), poi la presa di coscienza di quella climatica e ambientale, poi quella pandemica che fermerà il mondo temporaneamente e metterà in crisi la nostra idea di sviluppo globale forse definitivamente, infine quelle geopolitiche (che del resto avevano aperto il millennio, con l’abbattimento delle torri gemelle e la scoperta del terrorismo globale), fino all’Ucraina, e al riaprirsi del conflitto israelo-palestinese, e tutte le altre che ci siamo nel frattempo rapidamente scordati. Crisi, che diventano anche di senso, di prospettiva (non abbiamo più risposte alla domanda: dove stiamo andando?): e da cui non ci siamo più ripresi.
È una crisi anche quella demografica, che introduce una variabile ignota in passato, ma che ci cambierà radicalmente: le cui radici risalgono al secolo precedente, ma delle cui conseguenze ci accorgiamo solo adesso. Le nascite sono crollate, e siamo sempre più vecchi, anche se Trento e Bolzano stanno relativamente meglio rispetto alla media nazionale. In più abbiamo ripreso a emigrare, mentre l’immigrazione si è ormai consolidata nel passaggio generazionale, grazie ai nuovi italiani nati qui. Ma di queste immigrazioni abbiamo sempre più paura. Da un lato ci tocca ammetterne l’indispensabilità nel mondo del lavoro, dall’altro non ne vogliamo accettare le implicazioni, anche solo nella loro visibilità, ed erigiamo nuovi muri, mentali prima che fisici (e anche burocratici e legislativi).
Ed è una crisi anche quella della politica, dell’investimento nella casa comune, dei soggetti che pretendevano di guidare la società, dai partiti politici (oggi sempre più simili a consorterie dedite essenzialmente alla propria autoperpetuazione) alla chiesa, che resta una riserva etica importante, ma ha perso anch’essa incisività. Nella società è emerso un individualismo diffuso, che ha portato all’enfasi sui diritti soggettivi anziché su quelli da rivendicare collettivamente. Legati all’identità sessuale o alla bioetica, ma in realtà pervasivi, come mostrano gli egoismi anche generazionali (lo si vede quando si tratta di ripartire le risorse e gli investimenti: ognuno porta acqua al proprio mulino, che si tratti di pensioni o di qualche bonus).
Con l’individualismo si è diffuso il rancore di massa, la rabbia sorda e inconcludente, senza obiettivi, pronta a sfogarsi alla prima occasione, nei confronti del nemico politico e del capro espiatorio di turno (i social, ma anche le gazzarre televisive che vengono chiamate talk show, ne sono una riprova quotidiana, insieme a certa violenza banale, da incidente stradale o da rissa in un locale). E con il rancore si è innescato il ritorno delle tribù, l’insularità tra simili con lo stesso obiettivo (contro qualcuno più che per qualcosa). E si è accentuato un gap generazionale che forse non è mai stato così visibile e incisivo: neanche più il nuovo mondo dei giovani, che si ribella al vecchio, ma mondi separati e spesso non comunicanti – non si contesta neanche più, si vive altrimenti.
Di tutto questo, la politica è oggi uno specchio, forse ulteriormente deformante. E così, chiusi ciascuno nel proprio particolare, abbiamo perso la capacità di investimento sul futuro (complice la caduta del potere d’acquisto, la diminuzione dei salari reali, e anche una diffusa e impalpabile paura – raramente giustificata – che domina la vita cittadina di molti), cui è seguito il pessimismo come orizzonte. Come se si fosse persa la bussola, un orientamento, i punti di riferimento, le solide certezze che fanno sì che si sia capaci anche di grandi slanci, di nuove esplorazioni.
Eppure – seppure all’ombra della crisi ambientale e climatica – il futuro è potenzialmente esaltante. Le possibilità saranno enormi: il problema sarà far crescere di pari passo la capacità di immaginarle e di gestirle. Longevità, scoperte scientifiche, intelligenza artificiale e liberazione potenziale dal lavoro più duro e dai suoi ritmi e luoghi, come ci ha insegnato lo smart working. Ma questo ci riporterà ai problemi sociali di sempre: in primis la lotta alle diseguaglianze, per fare in modo che quello che è già a disposizione di pochi possa essere patrimonio di tutti.

pubblicato in “Corriere del Trentino” e “Corriere dell’Alto Adige” il 21 novembre 2023, in occasione dell’edizione del ventennale delle due edizioni locali del “Corriere della sera”

La ratio irrazionale degli accordi con l’Albania

Immaginiamo se, per migliorare la sanità in Italia, abbreviando le liste d’attesa e migliorando la qualità del servizio, l’Italia aprisse un ospedale a Tirana e portasse lì medici, infermieri e pazienti. O se, per offrire un servizio migliore nella pubblica istruzione, decidesse di aprire una scuola primaria a Scutari e un liceo a Durazzo, e lì ci trasferisse un po’ di studenti italiani, e i loro docenti. La considereremmo una conquista, un affare, una svolta storica da portare ad esempio, o non piuttosto una sconfitta, una intollerabile ammissione di incapacità e impotenza? Vista da questa angolatura, la scelta di aprire dei centri di gestione delle richieste di asilo degli sbarcati a Lampedusa in Albania, si presta già a qualche prima riflessione. Anche perché, se così stanno le cose, solo un grande risparmio economico potrebbe giustificare tale scelta, che resterebbe comunque sorprendente in termini di principio e problematica sul piano giuridico e del rispetto delle normative internazionali. Mentre appare già oggi chiaro che costerà molto di più che non gestire gli stessi numeri in Italia. E per giunta non sarà risolutivo.

Oltre a ciò, dovremmo considerare umiliante il fatto di dover immaginare che gli albanesi siano più bravi e veloci di noi nel gestire le pratiche: secondo le previsioni, 3000 persone al mese, con un turnover annuale di 36mila. Se è possibile farlo in 30 giorni, perché ci mettiamo fino a un anno e mezzo, e soprattutto perché non lo facciamo noi? Assumendo personale e dando lavoro a casa nostra?

La risposta sta nella logica dell’accordo. Che non è quella di migliorare la gestione del fenomeno, ma di mandare un segnale alla pubblica opinione autoctona, e in particolare all’elettorato della maggioranza, e a quello della premier in particolare. Una mossa astuta, dunque, ispirata non dall’obiettivo dell’efficienza e men che meno della giustizia, ma dall’ossessione ideologica di esternalizzare il problema (e dall’avvicinarsi delle elezioni europee), più che l’indicazione di un nuovo paradigma.

I problemi stanno già nel merito dell’accordo. Davvero si gestiranno le pratiche in un mese? E coloro che saranno riconosciuti come richiedenti asilo verranno a quel punto trasferiti in Italia, come la logica lascia pensare? E quelli che non lo sono, saranno davvero rimpatriati (a spese dell’Italia), o non finiranno per proseguire sulla rotta balcanica e tentare di rientrare comunque via terra (o di nuovo via mare, come gli albanesi di qualche decennio fa), ricominciando tutto da capo? E davvero si crede cha la pubblica opinione albanese lascerà passare l’accordo (che non è transitato dal parlamento, come del resto da quello italiano), che non protesterà perché uno dei luoghi coinvolti ospita il 70% del turismo estivo nel paese (e gli albergatori albanesi non hanno una mentalità diversa dai nostri), che non reagirà a un accordo di cui non sono chiari i vantaggi, e che ha un sapore vagamente neocoloniale?

Il problema vero è che, su una questione come quella della gestione dei flussi migratori, di cui le richieste d’asilo sono una delle forme contemporanee, e per giunta che riguarda il controllo dei confini e in ultima istanza la sovranità dello stato, la decisione può solo restare in capo allo stato medesimo, e ogni tentazione di esternalizzarla, pure tra loro molto diverse (come tentato anche dal Regno Unito con il Ruanda, come praticato dall’Unione Europea con la Turchia, come già fatto dall’Italia con la Libia, e come vagheggiato oggi da diverse cancellerie) solleva sempre i medesimi problemi, senza offrire peraltro soluzioni di lungo periodo, né risparmi. E questo, perché è sbagliata la logica. Perché, banalmente, il problema va affrontato dall’inizio, non dalla fine.

Se abbiamo oggi così tanti richiedenti asilo che arrivano irregolarmente, è perché abbiamo progressivamente chiuso i canali di ingresso regolare per i migranti economici, che sono precisamente quelli di cui abbiamo bisogno (l’Italia, al ritmo di almeno duecentomila l’anno, solo per compensare le uscite dal mercato del lavoro per pensionamento, e i mancati ingressi causa calo demografico: l’Europa per almeno due milioni). Riaprire i secondi è la prima condizione per vedere diminuire i primi. Ma questo presuppone ammettere – dicendolo apertamente, con una onesta operazione verità rispetto alla pubblica opinione – che di questi abbiamo bisogno, invece di continuare a ripetere il ritornello per cui i richiedenti asilo “quelli veri”, sì, dobbiamo farli entrare, e i migranti economici no: che è quanto si va invece ripetendo anche a proposito dell’accordo con l’Albania.

 

I migranti in Albania, prova di una sconfitta, in “La Stampa”, 10 novembre 2023, pp.1-29

Fine vita: discuterne seriamente, non con slogan

È triste che le discussioni sul fine vita ricadano nella consueta logica binaria (giusto/ingiusto, buono/cattivo, vero/falso, e nel caso di specie vita/morte) che portano a schierarsi prima ancora di cercare di capire. Perché il problema è innanzitutto quello di definire il problema. Non si tratta di abbreviare la vita o anticipare la morte: ma precisamente di definire che cosa è vita e che cosa è morte. Per questo dovremmo rifiutare con fastidio e persino con indignazione e scandalo chi si autopropone come pro vita, come se altri fossero pro morte. Se siamo adulti ragionevoli, almeno (purtroppo, ascoltando taluni politici e opinionisti, è lecito dubitare che lo siano: probabilmente è anche questo uno dei casi in cui il senso comune è più avanti di chi pretende di rappresentarlo).

Proviamo ad approssimarci alla definizione del problema. L’aspettativa di vita di ciascuno di noi si è allungata enormemente, e in un secolo è praticamente raddoppiata. Il problema è che l’allungamento degli anni in buona salute non è proporzionale all’allungamento della vita, e anzi la sproporzione cresce continuamente. Forme di malattia, di decadimento e di sofferenza una volta rare e inusuali sono oggi esperienza diffusa, quasi di massa. Il che significa che la parte finale della vita (spesso anni, talvolta decenni) diventa per molti sempre più difficile, dolorosa, onerosa, in qualche caso insostenibile: più un’agonia (che in greco significa lotta, faticosa e dall’esito incerto per definizione), che un sereno andarsene. La medicina (più correttamente: la tecnologia e la chimica applicate massicciamente al bios) ormai può tenere in vita indefinitamente un corpo: ma, appunto, è vita?

Come rispondeva il cattolicissimo filosofo Giovanni Reale ai cattolici troppo facilmente e facilonamente schierati imbracciando le loro certezze pro vita come armi, se un corpo è tenuto in vita da una macchina, e in grado di vivere solo grazie ad essa, sostenere questa scelta è una sacralizzazione della tecnica, non della vita. E, aggiungiamo noi, sancisce l’estensione del dominio della malattia, che ha la stessa radice etimologica del male e del maligno, sulla vita. Non a caso le cose sono più complicate di così, e gli schieramenti non sono affatto cattolici (o religiosi) contro laici: già ai tempi del caso Englaro l’opinione pubblica interna ai vari gruppi si suddivideva pressappoco a metà.

C’è in gioco una questione fondamentale di dignità della vita e di libertà di scelta, e dunque di chi ha il diritto di decidere e di disporre del proprio corpo, e di quello di chi non è (più) in grado di decidere per sé stesso. C’è una doverosa questione da porsi sulla naturalità o artificialità (o artificiosità) delle nostre scelte: così come c’è un ritorno al cibo e pure al parto naturale, non si vede perché non dovremmo avanzare una riflessione anche sulla morte naturale; evento escluso ormai dal nostro orizzonte domestico e ancor più medico-ospedaliero (per il quale la morte deve avere per forza una causa, come se non appartenesse alla natura l’idea che la vita ha anche una fine), ma che pure allude a una dimensione profonda, che dovrebbe farci riflettere anche sul riportare la morte a casa, in un orizzonte familiare, anziché ospedalizzarla per forza, anche quando non è né utile né necessario. Ma è giusto pure parlare di costi, economici e morali (e bisogna che qualcuno si assuma il coraggio civile di dirlo): ormai, per ciascuno di noi, il grosso della spesa sanitaria è speso negli ultimi anni, per tirarla in lungo, per così dire, talvolta fino all’estenuazione, non per vivere bene, o per migliorare la vita di chi – bambino, giovane, adulto – avrebbe il diritto di viverla meglio. E forse anche su questo dovremmo aprire una discussione: è davvero etico spendere sempre di più, talvolta indebitando famiglie o costringendole a scegliere tra le spese per i figli e quelle per i genitori, per allungare una vita, o talvolta un suo simulacro, di qualche settimana, mese o anno? Certo, quando non si può più guarire si può ancora curare, prendersi cura. Ma questo non vuol dire allungare indefinitamente agonie spesso protratte per volontà dei parenti di non lasciar andare i propri cari che per desiderio di questi ultimi: semmai accompagnare la vita che è rimasta dandole un senso, più che una durata maggiore – dare vita al tempo (rimasto), non tempo a una vita che forse non è più tale.

Fine vita, il binario sbagliato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 novembre 2023, editoriale, p.1