La scuola inutile. Cambiare il calendario scolastico per aiutare il turismo?

Il solo fatto che a qualcuno possa essere venuto in mente, a fronte del boom del turismo in Veneto e altrove che, a seguito del cambiamento climatico, ne sta facendo allungare la stagione, di posporre l’inizio delle scuole di qualche settimana, ci mostra quanto la scuola stessa continui a essere considerata, da una parte significativa del nostro paese, più come una specie di fastidio che come un’opportunità da cogliere e potenziare. E comunque, sempre, una variabile dipendente anziché uno dei cardini su cui costruire un nuovo modello di paese.

È un po’ come proporre quello che, in scala minore e per motivi assai meno drammatici, è successo ai tempi del Covid: quando la scuola è sempre stata la prima a chiudere e l’ultima a riaprire, essendo considerata meno essenziale di altri servizi. Con le drammatiche conseguenze che le generazioni che sono passate in mezzo a quella temperie ai tempi della loro formazione e istruzione stanno pagando adesso, in termini relazionali e cognitivi, tra bisogno di terapie psicologiche, serissime carenze in termini di contenuti che fanno sentire il loro peso negli anni successivi, e talvolta gravi disturbi della personalità.

Il fatto che la proposta, da alcuni attori economici del comparto turistico-alberghiero in particolare, venga reiterata praticamente ogni anno, dà pure l’idea che ci credono proprio, e sono convinti della bontà dell’idea, quasi fosse una geniale trovata per rendere più produttiva la loro gallina dalle uova d’oro. Peccato che vada contro gli interessi di tutti gli altri, e in particolare delle famiglie (di tutte le famiglie: anche dei loro dipendenti), che non saprebbero cosa fare con i loro figli. E questo anche se si trattasse solo di parcheggiarli: che, come noto, non dovrebbe essere la funzione principale della scuola. Il tutto per andare incontro a una maggiore presenza, per giunta, soprattutto di turisti stranieri.

Rimodulare l’anno scolastico andrebbe anche bene, intendiamoci. Ma semmai andrebbe fatto esattamente nella direzione opposta: meno vacanze, meno lunghe in estate, e piuttosto con periodi più lunghi di vacanza durante il resto dell’anno (come accade peraltro nella maggior parte dei paesi civili con cui ci confrontiamo), e scuola aperte agli studenti – e perché no, alla cittadinanza – per attività sociali, sportive e di recupero anche nelle fasce pomeridiane e durante le vacanze.

Ugualmente, andrebbe bene anche una certa capacità di adeguamento del sistema-paese ai cambiamenti in atto, con forme di flessibilità, rapidità decisionale e mutamento organizzativo, che sarebbero certo auspicabili: ma non ci sembra che sia la scuola il primo imputato di lentezza e incapacità. E semmai dovremmo rivolgerci a tante altre amministrazioni, burocrazie e politiche. E anche imprese. Agli operatori del turismo, che vantano (e lucrano su) record di presenze che continuano a crescere (non necessariamente per la loro abilità personale, ma perché nel mondo continua a crescere il numero di persone in grado di pagarsi delle vacanze), magari qualche riflessione comparativa potrebbe essere utile: sui tassi di fidelizzazione dei turisti, che probabilmente dice qualcosa sul servizio ricevuto nel corso della prima visita, o sui tassi di crescita di altre zone comparabili in altri paesi. Ciò che dovrebbe forse far riflettere invece sul bisogno di scuola e formazione, e conseguente professionalità, del comparto nel suo complesso: e sulla necessità di investire su personale ben formato, pagato di più e trattato meglio.

Semmai bisogna investire sulla scuola e l’istruzione nel suo complesso, visto che siamo un paese che investe circa un punto di PIL meno della media degli altri paesi europei, ha tassi di abbandono scolastico elevatissimi, la metà dei laureati della media europea (la metà!), e il doppio esatto di analfabetismo funzionale (il doppio! Il 30% contro il 15% dei nostri partner comunitari). Investendo, magari, anche strutturalmente. In settembre fa più caldo per tutti, e quindi anche per gli studenti. E, peraltro, fa più caldo anche in giugno, e quindi allungare il calendario scolastico in quel periodo non sarebbe una gran trovata. Magari pensare di investire, banalmente, in aria condizionata?

Dopodiché, forse, oltre che ragionare sulle opportunità turistiche del cambiamento climatico e dell’innalzamento delle temperature globali, potrebbe essere utile ragionare sui loro costi. E investire per contrastarli. Uno dei compiti in cui potrebbe essere utile un maggiore investimento sul sapere critico che propone la scuola.

 

Le richieste del turismo. Come cambiare il calendario, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 settembre 2024, editoriale, p.1-5

Ius scholae. Il diritto di avere diritti.

La cittadinanza è “il diritto di avere diritti”, diceva Hannah Arendt. Sapeva di cosa parlava, essendo stata apolide per un decennio. Lo diciamo in altro modo: la cittadinanza fa coincidere le frontiere territoriali con le frontiere dei diritti, semplificando notevolmente la vita. Chi ce l’ha, ha qualcosa in più, di sostanziale, che ne determina lo status e in certa misura i percorsi e gli esiti. Ed è precisamente quello che non capiscono (o capiscono fin troppo bene) coloro i quali, comodamente seduti sulla propria cittadinanza che coincide con il luogo di residenza, la rifiutano ad altri: trasformando il proprio diritto in privilegio. Che altro significa, infatti, far stare in condizioni giuridiche diverse due persone nella medesima situazione?

Prendiamo due minori, uno figlio di italiani, l’altro di immigrati. Nati entrambi in Italia (lo sono anche la stragrande maggioranza dei figli di immigrati). Frequentano lo stesso nido e la stessa scuola, la stessa palestra e spesso anche lo stesso oratorio. Hanno fatto gli stessi studi, nella stessa lingua, con gli stessi riferimenti culturali. Con poche differenze (che però sono anche differenze interne agli autoctoni: e che arricchiscono il panorama e l’offerta culturale, anziché impoverirla, come fa la chiusura ombelicale), ascoltano la stessa musica, vedono gli stessi film, praticano gli stessi sport e tifano per le stesse squadre, leggono gli stessi libri o gli stessi manga, mangiano cose simili e talvolta anche diverse, si vestono nella stessa maniera ma qualche volta un po’ diversa, si innamorano allo stesso modo e magari anche in modo diverso (ancora una volta: arricchendo e allargando le opportunità di tutti, non certo restringendole). Che cosa li differenzia? Precisamente la cittadinanza. E nient’altro. O, almeno, nient’altro di significativo: perché se si parla di colore della pelle o di occhi a mandorla, sono significativi solo per coloro che gli attribuiscono un significato, che non ha niente di oggettivo, e che per le giovani generazioni significa sempre meno).

Chi ce l’ha, la cittadinanza, nemmeno si accorge del vantaggio competitivo che ha: ma fa parte di un club esclusivo, perché esclude altri. E che non è legato a nessun merito (anzi, è la cosa più antimeritocratica che esiste), essendo la nascita del tutto casuale (nessuno sceglie né il luogo né i genitori e la loro origine). Se li sentissimo solo parlare, i figli e le figlie di immigrati che sono nelle classi dei nostri figli, il più delle volte non ne coglieremmo che la medesima inflessione dialettale. Dunque, perché questa differenza?

L’Italia è oggi uno dei paesi europei con la legislazione più restrittiva. Devi diventare maggiorenne. Poi hai un anno di tempo per raccogliere i documenti necessari (per motivi incomprensibili, se non di puro cattivismo burocratico, la finestra di opportunità si chiude col compimento del diciannovesimo anno). Poi lo stato si prende tre anni di tempo per rispondere (proviamo a immaginare se facesse altrettanto per il nostro certificato di residenza), che di fatto spesso diventano di più, senza che sia veramente possibile sollecitare o protestare. E naturalmente la risposta può essere negativa, anche se accade sempre meno. Quale il vantaggio per gli autoctoni? Persino per questioni di sicurezza, evocate così spesso a sproposito: è meglio includere e integrare (chi peraltro già lo è), o coltivare un sentimento di marginalizzazione? Perché restituire un rifiuto, dire all’altro: non sei come me, anche se ti credi uguale? Cosa ci si guadagna?

Quasi un decennio fa, in alcune realtà del nordest, i comuni, in collaborazione con l’Unicef, davano una simbolica cittadinanza onoraria ai bambini che avevano completato un ciclo scolastico, con incontri specifici e una cerimonia formale. L’ha fatto per qualche tempo anche il comune in cui vivo. Che cosa accadeva, andando nelle classi a parlarne? Che i figli di italiani scoprivano in quel momento, e se ne stupivano, che i loro compagni non avessero gli stessi diritti. Che talvolta lo scoprivano allo stesso modo i figli di stranieri. Ed era commovente e al contempo ironico vedere i giornalisti locali chiedere ai bambini “di dove sei?” e sentirsi rispondere, come a una domanda senza senso: “di qui”. Ecco, sono di qui. Fattualmente: perché non anche giuridicamente? Anche la maggioranza della popolazione oggi ne è consapevole, e è a favore dello ius scholae. E tra i giovani il consenso è plebiscitario. Perché non prenderne atto? Chi è contro, lo fa sulla pelle, è il caso di dirlo, di chi ha meno diritti, e non può votare per difenderli. Non è ora di fare un passo avanti?

 

Il diritto di avere diritti. Noi e lo ius scholae, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere dell’Alto Adige”, 21 agosto 2024, editoriale, pp.1-3

Carcere: il modello sbagliato

Quando scoppiano le carceri, a causa del sovraffollamento e delle condizioni di vita dei detenuti, la risposta che viene data in automatico è: più carceri, più agenti. Ma se il problema fosse nel fatto che la risposta è sbagliata perché la domanda è malposta? Anche perché non si tratta di un evento eccezionale, come viene raccontato: succede tutte le estati, occasionalmente anche in altri periodi dell’anno, mentre i suicidi e gli atti di autolesionismo sono una costante, sia tra i detenuti che tra le guardie (che hanno il più alto tasso di suicidi e di burnout tra tutte le forze di polizia). Il che dovrebbe farci riflettere sulla bontà del modello, che invece viene reiterato senza riflessione alcuna dalla politica: il rimedio a ogni problema sociale è sempre l’inasprimento delle pene e l’invenzione di nuovi reati, più galera (“buttando via la chiave”, come amano dire molti), più repressione. E se questo producesse il male anziché diminuirlo? O si limitasse a nasconderlo inutilmente sotto il tappeto?

A cosa servono davvero le prigioni? In origine erano case di lavoro, di cui si supponeva una funzione educativa, o quanto meno socialmente utile, correttiva (non a caso si chiamavano anche correzionali). In teoria dovrebbero essere dei luoghi dove riflettere sui propri errori: dove scontare una pena, cioè un dolore, ma anche avere occasione di fare penitenza (da cui penitenziario). E più recentemente si è posto l’accento, oltre che sulla sua funzione punitiva e repressiva, e su quella preventiva e di deterrenza, anche su quella rieducativa, riabilitativa (anzi, col passare degli anni, con pietosa menzogna sociale, l’accento è stato sempre più messo sulle ultime, anche se continuavano a prevalere le prime). Ma in Italia continua a prevalere la funzione ‘immobilizzativa’, priva di qualsiasi utilità individuale e di risvolto sociale, un mero parcheggio umano. In queste condizioni, a che cosa serve?

Parliamoci chiaro. Il tasso di recidiva, in Italia, è di oltre due terzi: 2,3 detenuti su 3 tornano a delinquere (mentre tra quelli che imparano un lavoro è molto più ridotto, ma sono pochi). Siamo a oltre il doppio della media europea. Il che significa che il sistema è fallimentare, e non risponde alla sua ragion d’essere: nasce per produrre sicurezza e crea le condizioni per il suo opposto, ovvero nuove minacce alla sicurezza sociale. Se una scuola avesse due terzi di bocciati, un ospedale la stessa percentuale di decessi, o un’azienda di prodotti difettati, diremmo che è un disastro, li smantelleremmo, ragioneremmo sugli obiettivi che vogliamo raggiungere, e ci ingegneremmo per inventare qualcos’altro. Invece con il carcere si fa finta di niente, riproponendo sempre le stesse ricette che non funzionano. Aggiungiamoci gli altri problemi. In Italia quasi un terzo dei detenuti sta scontando una condanna non definitiva (in Europa è circa un quinto), la durata media della detenzione è quasi doppia della media europea, come doppia è la percentuale di persone condannate per reati legati agli stupefacenti, mentre la percentuale di persone in carcere condannate per reati non gravi è tra le più alte d’Europa. Vuol dire che è il sistema che dovrebbe chiudere, buttando via la chiave.

Aggiungiamoci il problema dei costi. Il carcere è costoso, le comunità (e altre pene alternative) costano meno e hanno tassi inferiori di recidiva. Eppure si vogliono costruire nuove carceri anziché nuove comunità, o comunque incentivare altre forme di pena alternativa. Ce n’è abbastanza per dire che il problema non è solo chi è dentro il carcere (che così come stanno le cose, resta un problema irrisolto), ma il carcere in sé, l’idea che lo sottende, che finisce per riprodurre il problema che sarebbe chiamato a risolvere. È su questo che dovremmo cominciare a ragionare. Per convenienza, non solo per umanità.

 

Carcere, il modello sbagliato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 luglio 2024, editoriale, pp. 1-5

Il vero mondo al contrario. Quando il colore della pelle è ancora un problema.

Spesso i piccoli fatterelli quotidiani sono capaci di aprire sprazzi di comprensione della società, illuminandone i lati oscuri, più di tante drammatiche notizie di cronaca, quelle che vanno in prima pagina. Ecco, ci occupiamo oggi di una di queste storie minori.

La prendiamo per buona, per come è stata riportata anche da questo giornale. Facciamo finta che sia una storia vera, anche se ci piacerebbe che non lo fosse. Ma prendiamo per buono che lo sia, perché è del resto assai verosimile: succede tutti i giorni. Ed è successo anche in un condominio vicino a Piazza dei Signori, a Treviso. Dove una signora si è sentita in diritto di esprimere ad alta voce e in presenza degli interessati (che per fortuna, essendo stranieri, non hanno capito) il suo parere sul fatto che non voleva vedere nel suo stabile “persone così” (nigeriani, neri), ospiti peraltro di un altro condomino. Il quale si è pure visto arrivare una mail e una telefonata di critica, per non dire di minaccia, o di protesta, da parte dell’amministratore di condominio e dell’agenzia immobiliare.

Ecco, la storia di Treviso è una storia emblematica. Il fatto che sia ancora possibile, nel 2024, immaginare che una persona si senta in diritto di protestare e strepitare, in maniera per così dire ovvia e naturale, e trovi l’ovvia e naturale complicità di chi pretende di gestire con le proprie regole un seppur minuscolo potere, perché nella sua casa ci sono anche (transitoriamente: e poco importa che si tratti di artisti africani ospiti della Biennale!) delle persone di colore, dei neri, è una cosa che ci riporta terribilmente indietro. Ma non alla preistoria: dopo tutto i Sapiens si sono mischiati con i Neandertal, e noi portiamo nel nostro DNA i geni di entrambi – e quelle sì, dopo tutto, erano più credibilmente delle specie diverse. Peggio: in un altro mondo. Che dà l’idea di tutta l’arretratezza di un pezzo di Veneto profondo, anche di quello che si crede ricco, perché benestante, magari istruito, e quindi in qualche modo superiore, e con più diritti: anche quello di decidere sui diritti degli altri. Questi comportamenti – certo non generalizzabili, e non lo vogliamo fare: c’è anche l’altro Veneto, e ci piace pensare sia maggioritario – sono infatti trasversali: attraversano le classi sociali, i livelli di istruzione, la distinzione città-campagna, il fatto di essere uomini o donne, credenti o non credenti, di destra o di sinistra.

Quello che stupisce è che questo non stupisca. Che le autorità non si sentano in dovere di mandare un segnale a nome della città: e cominciare a intraprendere un’opera educativa che vada nella direzione opposta. Che i membri del palazzo in cui il fatto è accaduto non si indignino contro chi ha creato il caso. Che i familiari, le amiche, i colleghi, i conoscenti (dal panettiere al parrucchiere, dal barista a chi la serve nel negozio di moda preferito) non stigmatizzino questo comportamento. Che in qualche modo lo stesso astio irriflessivo che queste persone hanno riversato su questi ospiti stranieri non si riversi invece su coloro che ne sono all’origine e lo alimentano. Ecco, manca una reazione altrettanto di pancia: non colpevolizzante, non stigmatizzante (non ha senso, non serve, non è utile: se non a far sentire ‘buoni’ gli altri, e non è detto che lo siano), ma semplicemente educativa, migliorativa del nostro vivere che chiamiamo civile. E ci manca terribilmente un criterio etico per giudicare tutto questo. E lasciarcelo finalmente alle spalle. Anche perché la semina (sotto)culturale, su questi temi, per molti anni, è stata spesso a supporto delle opinioni della signora in questione: e molti ne portano la responsabilità, negli ambiti più disparati. Ma dobbiamo avere il coraggio di dircelo, guardandoci coraggiosamente allo specchio: “il mondo al contrario” contro cui si schierava recentemente un generale trionfalmente eletto alle elezioni europee con una valanga di preferenze, segno della popolarità dei contenuti che veicola, è in realtà questo. Di chi esprime questi contenuti. Non di chi è costretto a subirli.

 

Il vero mondo al contrario, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 luglio 2024, editoriale, p.1

Caporalato: le tutele negate (su base etnica)

Non c’è solo Satnam Singh: il bracciante irregolare morto dopo aver perduto un braccio in un incidente sul lavoro, in un’azienda di Latina, perché il suo datore di lavoro l’ha abbandonato a casa, il braccio in una cassetta della frutta, senza chiamare i soccorsi. La sua storia è più clamorosa di altre per l’esito letale, e per la disumanità non solo dell’atto, ma delle giustificazioni cercate da un padrone (questa la parola corretta) recidivo nello sfruttamento di manodopera irregolare. Tuttavia vi sono casi simili anche altrove: non una regola, per fortuna, ma nemmeno un’eccezione così rara. Con maggiore frequenza nel centro-sud, dove ci sono realtà rurali in cui il sistema arcaico di questo tipo di bracciantato assume aspetti strutturati di sfruttamento para-schiavistico, con intere cittadelle stagionalmente abitate da questa umanità invisibile e non riconosciuta come tale; ma con casi non isolati anche nell’agricoltura spesso più ricca del nord, dal Piemonte al Veneto, dall’Emilia all’Alto Adige.

È un intero sistema di produzione che va messo in questione: e riguarda una filiera lunga, che parte sì dai proprietari dei campi e dagli imprenditori agricoli, ma passando attraverso molti intermediari finisce sui prezzi imposti negli scaffali dalla grande distribuzione, e in definitiva sulle nostre tavole.

Non c’è solo un problema di prevenzione e controllo, largamente insufficienti alla bisogna. A monte c’è una modalità di gestione dei flussi migratori, da tutti gli addetti ai lavori (inclusi gli imprenditori) considerata assurda, fatta di click day non controllati e in parte in mano a forme di criminalità organizzata (non si spiega altrimenti come mai oltre la metà delle domande venga fatta in Campania, che ha solo il 6% delle imprese agricole).

C’è un problema di mani mafiose nell’agroalimentare, che sono in grado di imporre un ordine illegale, con la forza quando necessario, anche perché non di rado coincidono con il datore di lavoro stesso. C’è un problema di mafie etniche dedite all’autosfruttamento delle comunità immigrate: sempre più frequentemente gli intermediari appartengono allo stesso gruppo etnico delle vittime, con l’ambiguità che spesso hanno queste figure per chi non ha altre risorse relazionali e conoscitive (a cominciare da un minimo di padronanza della lingua, delle regole di base del vivere civile e del rispetto dei contratti e delle leggi). Queste figure sono al contempo carnefici e malavitosi, ma anche mediatori e protettori, e come tali considerati e rispettati: quando non svolgono addirittura un ruolo fiduciario di legame con le famiglie allargate rimaste nel paese d’origine. Ma c’è anche un problema culturale più generale che ci riguarda tutti. Perché alla fine ci siamo noi: che non vediamo, o facciamo finta di non vedere, o di non sapere.

Ormai ci stiamo abituando ad accettare che nel mercato del lavoro viga un dualismo esplicito e visibile: tra lavori che prevedono tutele e garanzie, e quelli in cui non importa; tra lavori in regola e lavori irregolari, in nero o in grigio; tra lavori in cui si rispettano dei minimi sindacali e salariali, e interi settori dove non si rispettano più; tra lavori svolti da autoctoni e da immigrati, anche – settori in cui è ragionevole aspettarsi che chi ci lavora abbia il colore della pelle diverso dal nostro, e quindi sia normale sia pagato di meno e trattato peggio. Dove il problema sta tutto in quel ‘quindi’. E noi di questo siamo al corrente: e cominciamo a considerarlo accettabile, o comunque pensiamo di non poterci far niente. Per dire: i lavori stagionali in agricoltura sono sempre esistiti. Ma anche ai tempi delle mondine, e in altre forme di raccolta, per quanto precario, un tetto ai lavoratori lo si dava: come è possibile oggi pensare che sia normale che un datore di lavoro possa assumere decine o centinaia di stagionali stranieri, senza avere alcun obbligo rispetto all’alloggio, visto che è ovvio che non hanno una casa? Dove e su chi si scaricherà il problema?

Tutto questo non è nuovo in assoluto: le classi e sottoclassi non sono un’invenzione dell’oggi. Solo che quando a questa differenza si sovrappone anche la diversità etnica (o razziale, come la chiama qualcuno), questo meccanismo si potenzia, e finisce per rendere più larga la frattura tra chi è dentro e chi è fuori il sistema delle tutele, e più ambiguo il nostro ruolo.

 

Caporalato: chi lavora tutelato e chi no, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 luglio 2024, editoriale, pp. 1-5

Veneto 2040. Inesorabile demografia: pochi o plurali

Il numero è 380mila. Se si preferisce, l’8%. È la quantità di popolazione veneta che sparirà da qui al 2040. Ancora di più, 440mila, sono invece gli occupati che non saranno sostituiti da nuovi lavoratori, semplicemente perché quei nuovi lavoratori non saranno nemmeno nati, e quindi non copriranno il numero di persone andate nel frattempo in pensione. Il tutto, solo per mantenere stabile la base occupazionale, senza neanche immaginare una sua crescita. Un numero enorme, che Fondazione Nordest fa bene a metterci sotto il naso in tutta la sua asciutta ma esplicita drammaticità. E che è stupefacente non produca dibattito politico e decisione pubblica: perché è la questione più importante, insieme a tutte quelle correlate con l’evoluzione tecnologica e l’intelligenza artificiale, con cui dovremo confrontarci da qui ad allora. Niente è più pervasivo, e ha effetto in più ambiti, della demografia: non solo lavoro, ma scuola, sanità, urbanistica, università, servizi, consumi, welfare, previdenza, cultura, religione, e qualunque altra cosa possa venirvi in mente.

Se non si riflette su questi dati, niente si può programmare. E se pensate che il 2040 sia lontano, vi sbagliate di grosso. C’è appena il tempo necessario per prepararsi. Non solo perché quanto accadrà allora, in termini di previsioni demografiche, è già prevedibile oggi con inesorabile precisione. Ma perché le previsioni sul domani sono in grado di determinare e modificare le scelte di oggi di molti soggetti, aggravando il problema. Quanti giovani, ad esempio, conoscendo questi dati (e li conoscono più di quanto crediamo, o li intuiscono, perché li sperimentano già oggi osservando il poco attrattivo paesaggio economico e sociale che li circonda, e vedendo le differenze quando viaggiano all’estero: e viaggiano…), decideranno di andarsene già prima di entrare nel mondo del lavoro, magari approfittando di un Erasmus, o decidendo di frequentare l’università direttamente altrove?

Certo, ci sarà più spazio, anche contrattuale, per i giovani che entrano nel mercato del lavoro. Certo, potranno entrarci più donne perché finalmente avranno flessibilità oggi inesistenti, che consentiranno di conciliare famiglia e lavoro (che è un problema che dovrebbero sentire anche gli uomini): la società, i datori di lavoro, saranno costretti a adeguarsi. Certo, si potrà eventualmente lavorare più a lungo (magari in forme diverse dal passato), visto che viviamo di più e più in salute di prima. Ma chi si illude che questo basti, e consenta di eludere l’ineludibile, si sbaglia di grosso: occorreranno anche immigrati. Prova ne sia che anche i paesi con pochi NEET (giovani che non lavorano né studiano) e una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, hanno bisogno anche di manodopera – e di popolazione – immigrata. Ecco perché, correlata alle proiezioni demografiche, c’è la questione della gestione dei flussi migratori: che non si potrà limitare al numero di lavoratori necessari, dato che anche loro, come tutti, tendono a costruire relazioni e a mettere su famiglia (anche gli immigrati hanno desideri, progetti, e si innamorano persino). Ce ne saranno molti di più, e ne desidereremo molti di più. La società è destinata a cambiare radicalmente, a pluralizzarsi, a normalizzare ciò che oggi viene considerato eccezionale, a fisiologizzare ciò che molti ancora considerano patologia. La competizione, presto, sarà su come attrarli, gli immigrati, oltre che su come trattenere i nostri giovani. E dovremo fare concorrenza a altre regioni (per motivi diversi, sia la Lombardia che l’Emilia-Romagna), già ora meglio attrezzate di noi. Mentre la politica (ma anche la cultura diffusa) è ancora impegnata nella battaglia di retroguardia di respingerli, gli immigrati, senza sapere come né perché. Certo, bisognerà studiare, confrontare, organizzarsi: non si può pensare che i processi accadano e basta. Bisognerà favorire i processi di integrazione come non si è fatto fino ad ora, e spendere per farlo bene, come del resto si spende in istruzione per vivere in un paese civile. Come sempre, come per ogni cosa, è questione di governo, cioè di prendere decisioni: se non si fa, si crea disordine; se lo si fa, si produce un ordine decentemente soddisfacente per tutti. L’alternativa, a non fare nulla, è un orizzonte cui rischiamo di doverci abituare: quello di una maggiore povertà, di una crescente solitudine, di una minore dinamicità che spingerà verso il basso i nostri indici di vivibilità. Niente che ci convenga, in ogni caso.

 

Leggete questi numeri, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 giugno 2024, editoriale, pp. 1-7

Fleximan, un eroe improbabile

Fleximan è il nome improbabile – che fa pensare più a un idraulico o a un contorsionista da circo di periferia, che a un difensore del popolo, a un Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri – che è stato dato a chi (forse più di una sola persona) ha fatto saltare un po’ di autovelox in giro per il Veneto, diventando in breve una specie di amato vendicatore popolare, una leggenda minore del Nordest. Ora che si è capito chi incarna davvero questa figura (almeno per alcuni dei danneggiamenti avvenuti), si può fare qualche considerazione in più. Sul soggetto in questione, e sulle emozioni che oggi lo circondano.

Normale che possa fare simpatia. Perché è vero che gli autovelox vengono installati allo scopo fondamentale di fare cassa. È vero pure che talvolta vengono programmati a tavolino, in anticipo, gli obiettivi economici che la polizia locale deve raggiungere in termini di raccolta fondi attraverso le multe. È vero anche che spesso, proprio per questo, vengono installati sulle strade di maggiore percorrenza per gli automobilisti in transito: in modo da colpire, in proporzione, più le persone che non abitano nel territorio che incassa il balzello (anche se non è sempre così: il caso di Cadoneghe, dove pure sono stati fatti saltare gli autovelox, insegna), e non pagare quindi il prezzo elettorale della vessazione. Tutto vero, condannabile e ingiusto: anche perché le multe non sono un’imposta progressiva – ed essendo uguali per tutti, è al più povero, al meno abbiente, che fanno percentualmente più danno. Ma è anche vero che gli autovelox stessi, come forma di dissuasione, hanno o dovrebbero avere una funzione precipua differente: tutelare la salute e le vite umane, da chi guida sulle strade senza regole e a velocità eccessiva, nelle ore diurne e peggio ancora in quelle notturne, provocando una lunga teorie di sofferenze, di vittime della strada (che è anche scorretto definire così: sono vittime di automobilisti indisciplinati e irresponsabili – la strada è innocente…), di famiglie rovinate, di tragedie umane. E semmai ci sarebbe da ragionare seriamente su quella specie di culto un po’ provinciale e vetusto, da boom economico, dell’automobile come veicolo di libertà e sua manifestazione, possibilmente senza regole, che sia il limite di velocità o di tasso alcolemico, che ancora è così presente in certo Veneto profondo, incapace di uscire da questa in fondo primitiva e persino banale ostentazione del proprio ego.

Fleximan quindi (o, come si legge in molte pagine sui social, Fleximen, al plurale: manco scriverlo in inglese corretto…) non è un eroe. E se lo è, appartiene a quella vena un po’ picaresca, vagamente anarchica, che alberga nell’animo popolare veneto, spesso con venature di estrema destra più antropologiche che veramente ideologiche (anche se queste non mancano: il nostro è stato segretario di Forza Nuova e ama usare la parola ariano con manifesta convinzione…). Persino certe istanze autonomistiche sono declinate, in fondo, in questo modo: facciamo da noi, facciamoci giustizia – anche – da noi, a modo nostro. E forse c’è un filo rosso (o nero) che lega le imprese del Tanko, il mugugno senza capacità costruttiva contro l’autorità quale che sia (inclusa quella che sarebbe l’incarnazione della vicinanza al territorio, come l’ente locale), benissimo impersonato dal Pojana, il personaggio del piccolo imprenditore veneto sempre in polemica col mondo inventato dal comico Andrea Pennacchi, e appunto Fleximan, il supereroe in saòr, che produce anche qualche effetto emulativo.

Non stupisce quindi, ma un po’ amareggia, e un po’ anche addolora, che sia diventato in poche ore un simbolo, un idolo quasi, con i suoi supporter acritici e i suoi fan più sfegatati, una sorta di capopopolo provinciale – che non ha né la tragicità di un Masaniello né la dignità e l’arguzia di un Rugantino – da sostenere nella sua lotta contro lo stato (che poi siano i comuni, all’occhio superficiale non fa differenza), a cui si vogliono pagare le spese legali lanciando collette, e che molti invocano fin d’ora come candidato alle elezioni. Peccato che abbia perso l’occasione delle europee, dato che le liste sono già chiuse, e il posto di spicco del protestatarismo guascone, da uno contro tutti, gli sia stato soffiato da altri personaggi in qualche modo simili, magari con la divisa e le stellette – mentre ieri erano gli agitatori no vax e domani chissà. Avanti il prossimo…

 

Tutto fuorché un eroe, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 19 maggio 2024, editoriale, pp. 1-6

Primo maggio: ha ancora senso festeggiarlo?

Ha ancora senso festeggiare il Primo Maggio? Forse no. Forse non come lo si fa ora. Forse dovrebbe diventare una riflessione su come si sta trasformando il lavoro, e quale senso avrà, e quanto sarà diverso da quello che siamo abituati a pensare che abbia. Perché il tema è lì, ed è decisivo.

Non è tanto questione di data. Manteniamola pure, rispettando le tradizioni, anche se non molti, oggi, ne conoscono le ragioni. L’origine rimanda alla lotta di un gruppo di lavoratori statunitensi a Chicago per ottenere la giornata lavorativa di otto ore, e le proteste, gli attentati, la repressione e i morti che ne sono seguiti. Curiosamente, non è adottata come tale negli USA, i diretti interessati, dove il “Labor Day” si festeggia il primo lunedì di settembre. È invece stata adottata dal movimento operaio e socialista di tutto il mondo, e quindi viene festeggiato con più ostentazione nei paesi che socialisti si dicono ancora, come la Russia e la Cina (non proprio i paesi dove è ideale vivere e lavorare): anche se è festa pure nella maggior parte dei paesi d’Europa, dove però è diventato, appunto, un (benemerito, naturalmente) giorno festivo in più sul calendario.

La modalità invece ci dice qualcosa. Ho fatto in tempo a vivere e partecipare alle ultime grandi manifestazioni degli anni Ottanta (lavoravo, allora, al sindacato): quando il Primo Maggio non solo si bloccava tutto, ma i lavoratori (dipendenti, almeno), spesso con le famiglie, partecipavano davvero ai cortei, e ci tenevano, invece che approfittarne per una gita fuori porta (dove, invece, nel settore ampio della ricezione, lavorano tutti in turni rafforzati). Certo, la retorica era spesso insopportabile, i discorsi dei leader di CGIL-CISL-UIL e delle altre più o meno autorevoli autorità di contorno (dai sindaci all’ANPI o qualche altra sigla più o meno collegata al tema) monotoni, ripetitivi e di lunghezza oggi – ai tempi dei social – impensabile, anche per il militante meglio disposto. Ma, appunto, si respirava ancora aria di festa, e almeno si sapeva perché si era lì: c’era un clima che si poteva ancora condividere, e spesso messaggi da diffondere. Oggi? Dal 1990, ciò che era manifestazione popolare nazionale è stata trasformata in concertone. Tatticamente, una trovata abile: c’è una presenza cospicua, si coinvolgono moltissimi giovani (che ai cortei tendevano a sparire), e immagino si sia trovato il modo di caricare almeno parte delle spese sulle spalle della RAI, che lo trasmette in diretta. Soprattutto, ci si illude di contare qualcosa, perché gente, dopo tutto, ce n’è. Strategicamente, ormai ci si è già accorti che è una iniziativa a perdere. Perché le persone sono lì per tutt’altri motivi, e nonostante gli encomiabili ma anche un po’ cosmetici sforzi di inventarsi ogni anno un tema e una parola d’ordine, e qualche minuto di contenuti parlati nella disattenzione generale, magari con il contorno di qualche strumentalizzazione legata all’attualità politica del momento, alla fine ci si va solo (o lo si guarda in TV) perché c’è la musica e perché è gratis.

Questa parabola è fortemente simbolica, e ci dice molto sulle trasformazioni del lavoro. E, magari, dovrebbe richiamare più attenzione: anche e soprattutto da parte di chi, come i sindacati, svolge un lavoro di tutela di cui c’è ancora enorme bisogno, anche se in forme sempre più differenziate. Da un lato ci avviamo a un dualismo di fatto, a una polarizzazione progressiva: a seguito della quale per alcuni il lavoro è sempre più denso di significato e strumento di valorizzazione di sé e della propria creatività (sono quelli, sempre più individui e sempre meno collettività, che del primo maggio hanno meno bisogno, perché in più il loro lavoro è spesso decentemente redditizio); mentre per altri è solo uno strumento necessario e inaggirabile per percepire un reddito, sempre meno adeguato ai costi e ai bisogni, e sempre meno valorizzante per chi il lavoro lo svolge. Dall’altro il legame tra lavoro e reddito sarà sempre più indiretto: dall’alto, per così dire, perché chi può, perché ne ha i mezzi (i ricchi sempre più ricchi in un paesaggio di diseguaglianze crescenti), si è già liberato da solo dal lavoro, e non fa nulla per nasconderlo; dal basso perché si stanno diffondendo forme di reddito universale e di sostegno a prescindere dal lavoro svolto. Al punto da rendere obsoleto l’articolo 1 della nostra Costituzione, e dunque il fondamento su cui poggia. Che “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro” ha ancora molto senso nella sua prima parte, molto meno nella seconda, anche se continuiamo a crogiolarci nella retorica della Costituzione più bella del mondo.

Ecco, forse è questa la svolta su cui vale la pena riflettere, se vogliamo dare ancora un senso al giorno del lavoro: e farne occasione di riflessione sull’ingiustizia e di ripensamento della società.

 

Il vero senso della festa in un mondo del lavoro che sta cambiando, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 maggio 2024 pp. 1-4

“Prima gli italiani”, “prima i veneti”, “prima noi”: cosa c’è mai di sbagliato?

Sappiamo che è difficile non condividere tutte le leggi “prima noi”: ci sembrano intuitive. Prima noi per le case popolari, le borse di studio, i posti in istituto per anziani e disabili, gli asili nido e qualunque altra graduatoria. Prima chi vive sul territorio, ci paga le tasse e ci ha messo radici. Sembra evidente: ecco perché questi ragionamenti sono così popolari. Sappiamo anche la questione è più simbolica che sostanziale: in fondo ci sono altri criteri che giocano (dal livello di reddito al numero di figli alla presenza di anziani), e quindi la discriminazione (positiva, nei confronti dei residenti da più tempo, o negativa, nei confronti dei neo-arrivati), potrebbe non incidere più di tanto. Ma allora perché insistere? E cos’è che non va nell’impostazione del ragionamento?

Un utile modo di vedere le cose è rovesciare la prospettiva. Immaginiamo di andare noi altrove: a lavorare in un’altra città o regione – magari perché chiamati da un datore di lavoro (che può essere anche pubblico: che cerca un medico, un insegnante, un carabiniere, un giudice…), o perché vogliamo aprire un’attività, o semplicemente perché ci innamoriamo di un posto – e pronti a contribuire al benessere proprio di quella regione pagando le tasse lì: come ci sentiremmo se ci dicessero che non possiamo accedere ai relativi servizi? Lo considereremmo “giusto”? E per vedere se oltre che giusto è anche sensato: come considereremmo un regolamento di condominio in cui si dicesse che non possono utilizzare l’ascensore, o devono mettersi in coda dopo gli altri, quelli arrivati per ultimi?

Parliamo di servizi fondamentali: casa popolare, asilo nido per i figli. Si chiede di essere residenti da un po’ di anni: ma spesso, quasi sempre, è proprio “all’inizio” (di una convivenza, di un matrimonio, di un’attività) che si ha più bisogno di supporto. Ha senso negarla, che so, a una giovane coppia, italiana o straniera che sia, semplicemente perché arrivata dalla provincia accanto, che sta in un’altra regione? Aggiungiamo che si tratta di un disincentivo a venirci, in una regione: perché mai, a parità di salario, di fronte a condizioni diversificate e di fatto discriminatorie per i neo-arrivati, una persona dotata di senno dovrebbe scegliere la regione che gli rende la vita più difficile? Che gli manda un segnale neanche tanto implicito di rifiuto? Che gli dice che è un cittadino di serie B? Ed è di questo di cui abbiamo bisogno, in una situazione di drammatico calo demografico e di gravissima difficoltà a reperire manodopera? Ci facciamo del male o del bene facendo così? Ricordiamo che già all’approvazione delle primissime leggi “prima i veneti” i primi a protestare non furono gli immigrati, ma gli agenti di polizia provenienti da altre regioni che vengono a fare un lavoro di cui i veneti hanno bisogno ma non vogliono più fare (o comunque non ce ne sono abbastanza): è questo il nostro benvenuto?

Qualcuno, per giustificare queste norme, parla di meritocrazia. Ma il merito non c’entra niente: qualcuno ha “meritato” di essere nato casualmente in una regione o in un’altra? Semmai c’entra il diritto e il bisogno. E con queste leggi si manda un messaggio di questo genere: “tu hai meno bisogno, ma siccome sei nato qui, per il solo fatto di essere nato qui – non perché sei migliore – hai più diritti di altri”. L’opposto esatto della meritocrazia.

Ma il problema vero per cui queste leggi si pensano e si approvano è simbolico, dunque politico. Consente di creare barriere, di far passare il messaggio che qualcuno ci guadagna a scapito di altri, di creare in maniera neanche tanto sottile una distinzione, dunque un capro espiatorio: non a caso si pensa immediatamente agli immigrati, e in particolare a quelli extra-europei. Per cui se non ci sono abbastanza case popolari non è perché da decenni le politiche pubbliche hanno smesso di occuparsi di questo problema, ma perché ci sarebbero “troppe” domande in qualche modo illecite o ingiustificate. E si fa una bella guerra tra poveri che in più consente a chi la promuove di lucrarne il consenso relativo: proprio perché il ragionamento, come dicevamo all’inizio, sembra intuitivo.

Purtroppo, così facendo, ci facciamo solo del male, soffiando sul fuoco dei conflitti anziché spegnerli. Anche perché è semplicemente antistorico: la vita di ciascuno di noi è sempre più mobile, i nostri figli si spostano sempre di più e sempre più lontano, anche solo la tendenza all’urbanizzazione è inesorabile (nel 1950 viveva nelle città un terzo della popolazione mondiale, nel 2050 sarà più di due terzi, al 2100 il pianeta sarà quasi interamente urbanizzato): veramente possiamo immaginare che una persona nata sul Garda sia trattata diversamente a seconda se va a vivere a Brescia o a Verona? Ma già, certo, le prossime elezioni saranno assai prima…

I diritti, i primi e gli ultimi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 25 aprile 2024, editoriale, pp. 1-5