Più migranti, e più figli: non è un’alternativa. E a proposito di Nordest…

FACCE DISPARI

Stefano Allievi ci spiega perché “non bastano più figli, servono migranti regolari”

 

FRANCESCO PALMIERI   

Sociologo, studioso dei fenomeni migratori, il suo ultimo libro è il “Dizionario del Nordest”. E dice: “Smettiamola con la retorica dell’invasione: l’allarme è ingiustificato. Solo con nuovi ingressi potremo salvare l’Italia”

Sociologo, studioso dei fenomeni migratori, milanese che ha scelto il Nordest dove vive da venticinque anni, Stefano Allievi è infaticabile autore di saggistica e infaticabile lettore di poesia (“per igiene mentale”). Ordinario di Sociologia all’università di Padova, il suo ultimo libro è il ‘Dizionario del Nordest’ uscito per Ronzani Editore, in cui sostiene, per dirla in sintesi, che il Nordest non esiste più. E poiché è capitato di sentirlo nel giorno degli Stati Generali della Natalità, non si è fatto sfuggire l’occasione per ricordare che, secondo lui, solo con l’arrivo dei migranti il Nordest (esista o meno) e l’Italia si possono salvare

Professore, cos’è il Nordest?

È retorica e aspirazione. Serve a vendere prodotti, soprattutto politici, con il richiamo a una identità molto ampia. Ma tra il Friuli e il Veneto ci sono enormi differenze, per non parlare del Trentino o addirittura dell’Emilia-Romagna, inglobata nella stessa circoscrizione elettorale alle Europee. Il Nordest è una invenzione politica e giornalistica, che ha funzionato per un bel po’ di tempo come chiave di presunta unicità: “Siamo la locomotiva d’Italia, quelli che lavorano più degli altri” e così via. Ma è da una ventina d’anni che il Nordest è un magma senza caratteri comuni, né politici né economici. Nello stesso Veneto, il Polesine, Belluno, Verona o Venezia sono tanti mondi a sé.

Come definire questo “magma”, che esiste ma non c’è?

Una sorta di metropoli diffusa che non è metropoli ma è sparpagliata tra città medie, piccole e campagne. Con un tessuto sociale provinciale, al cui interno ci si conosce bene e non si parla male, in pubblico, degli altri. Ci si protegge reciprocamente, non si è entusiasti di chi viene da fuori e i migranti sono brutti e cattivi, anche se il Veneto registra un saldo demografico negativo e una drammatica carenza di manodopera, perché a differenza della Lombardia il calo della natalità non è compensato dagli afflussi dall’Italia e dall’estero.

Cambieranno le cose con politiche più incisive a favore della natalità?

Sono auspicabili ma insufficienti in un Paese che ha perso in un anno 400 mila persone. Le politiche più “nataliste” del mondo, ammesso che le finanziassimo, avrebbero effetti sul mercato del lavoro tra vent’anni: vuol dire che intanto migliaia di aziende già senza manodopera avranno chiuso o si saranno spostate all’estero, con una enorme perdita di produzione e di ricchezza nazionale. Ci siamo mossi tardi: dell’inverno demografico bisognava accorgersi tanto tempo fa. Invece ci siamo svegliati solo da un paio d’anni, quando oltre a parlare degli sbarchi abbiamo constatato quanti giovani italiani emigrino per non restare in un Paese per vecchi.

Crede che l’arrivo di migranti possa risolvere i problemi economici piuttosto che aggravare quelli sociali?

Smettiamola con la retorica dell’invasione: l’allarme è ingiustificato. E poi gli arrivi irregolari non sono frutto del destino, ma li abbiamo creati noi. Quarant’anni fa non c’erano i barchini perché si poteva andare e tornare dall’Europa, non solo dall’Italia, senza tutte le attuali restrizioni che hanno prodotto evidenti risultati: morti in mare, migranti con livello d’istruzione sempre più basso e aumento dei minori non accompagnati, che rappresenta una bomba sociale. Non avveniva dai tempi di Neanderthal che dalle caverne invece degli adulti uscissero i bambini per procacciare il cibo.

 

 

Porti aperti?

Porti chiusi ai migranti irregolari, aperti ai flussi regolari. La soluzione va cercata negli accordi diretti con i Paesi di origine, stabilendo una quota annua di arrivi per ciascuno. Gli hub in Tunisia non risolvono, rivelano piuttosto una visione ancora sottilmente colonialista rispetto a Paesi che hanno un’opinione pubblica, dei media e un elettorato cui rispondere. Gli accordi diretti permetterebbero anche una selezione a monte e renderebbero realistico l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Non abbiamo bisogno solo di richiedenti asilo, ma dei migranti economici. Chi dice il contrario va contro i giovani italiani. Sembra un’eresia per la vox populi, ma gli addetti ai lavori lo sanno.

Spieghi alla vox populi.

Quando il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati non sarà più di 3 a 2 ma di uno a uno, quella generazione dovrà mettersi sulle spalle un peso insostenibile. All’università i ragazzi mi rispondono: allora anch’io lascio l’Italia. Già oggi, per semplificare con un parametro approssimativo ma facilmente memorizzabile, un giovane di 25 anni guadagna il 25 per cento in meno del suo coetaneo di 25 anni fa.

Perché non si fanno figli?

Non riduciamo tutto a questione di edonismo. In Italia il 45% delle donne in età fertile non ha figli, ma solo il 5% tra loro dichiara di non volerli. È che il nostro, pur essendo un Paese familista, non offre grandi servizi alla famiglia. Dai nidi alle scuole a tempo pieno ai congedi a cose più banali, come i fasciatoi al ristorante o lo skipass gratuito per i piccoli. Difatti le italiane emigrate in Germania o in Olanda fanno figli e li conciliano bene con il lavoro.

Il periodo della pandemia è stato un’occasione di cambiamento sciupata?

Non solo: ha aggravato la situazione, perché le donne hanno sofferto di più la perdita di lavoro e si è aggravato il divario tra garantiti e non garantiti. Non è un dramma all’orizzonte. Ci siamo già dentro.

     

    25 aprile: le parole per dirlo

    Il 25 aprile continua ad essere percepito da alcuni come una data e una festa “divisiva”. Eppure è dalla Liberazione dal nazifascismo che nasce logicamente la Repubblica, che festeggiamo il 2 giugno. E in cui tutti, salvo forse i Savoia, ci riconosciamo.

    Quest’anno c’è una differenza, però. Al governo non c’è chi l’ha sempre considerata come una “sua” festa, un motivo d’orgoglio e una rivendicazione di identità. C’è proprio chi, o anche chi, l’ha considerata – pure con polemiche recenti sul ruolo dei partigiani, o ambigui tentativi di ridurla alle sue pagine oscure (dalle foibe ai conflitti tra fazioni o alle vendette personali: che ci sono state, ma non ne inquinano il messaggio e il risultato) – divisiva e non inclusiva. Quale occasione migliore, allora, per i discendenti politici di chi all’epoca è stato sconfitto, ma ora gode dei vantaggi del regime repubblicano costruito dopo quello totalitario, e della legittimità democratica conquistata grazie ai suoi meccanismi elettorali (che il fascismo non consentiva), per fare un passo avanti, per andare oltre, per mostrare definitivamente di essere statisti, di essere al governo di tutti e per tutti, e non solo di una parte che si sente ancora – per giunta a torto – minoranza e vittima incompresa?

    Certo, il 25 aprile ci mostra la vittoria di una parte d’Italia. Qualcuno direbbe la sua parte migliore. Certamente non solo la sua parte vincente: quella che come noto scrive la storia. Perché è molto di più: è la parte che ha dato luogo al tutto – i padri e le madri della Repubblica, della democrazia, e della costituzione che di questi valori si è fatta garante trasformandoli in mezzi. Grazie a quella vittoria, combattuta dagli alleati e da una parte minoritaria della meglio gioventù italiana (i partigiani di varia tendenza, diversi e divisi tra loro ma tutti accomunati dal desiderio di sconfiggere il fascismo), e sostenuta da molti di più, oggi siamo il paese che siamo. Con terribili difetti, è vero: ma democratico, e libero. Con una costituzione avanzata e civile, capace di evolvere e di includere diversità che il fascismo avrebbe considerato inaccettabili e avrebbe combattuto. Un paese in cui sono garantiti i diritti di tutti. Anche delle minoranze. Anche di chi, se allora avesse vinto, non li avrebbe garantiti a tutti, li avrebbe esplicitamente conculcati ad alcuni, e limitati a molti, come già aveva fatto, trasformandoli in privilegi di pochi.

    C’è un modo di uscire dal meccanismo delle retoriche contrapposte, e pronunciare parole non banali, in qualche modo significative, oggi? Forse sì. Celebrando il 25 aprile, come giusto. Ricordando e raccontando chi ha combattuto e si è sacrificato nella resistenza, affrontando il nemico, che era nemico dell’Italia e degli italiani, non solo degli antifascisti: aveva tolto loro le libertà e li aveva portati in guerra, perseguitando e sterminando una parte di loro, gli ebrei, oltre gli oppositori politici. Un regime indifendibile sotto tutti i punti di vista, con gli occhi di oggi. Ma anche riconoscendo che molti hanno servito il loro paese, o hanno creduto di farlo, in altro modo. Il 25 aprile è padre del 2 giugno, ma anche figlio dell’8 settembre. Il giorno in cui molti si sono trovati di fronte a un bivio, hanno dovuto scegliere, e hanno scelto. Chi andando in montagna a combattere come partigiano. Chi cercando di dare una mano continuando a fare il proprio lavoro di prima: il contadino, l’operaio, l’impiegato di una istituzione, il carabiniere – schierandosi silenziosamente, nel fare più che nel dire. Chi scappando, invece: in esilio, rifiutandosi di contrapporre italiano a italiano, o semplicemente sfollato altrove, rifiutandosi di obbedire ad una autorità non più riconosciuta, ma incapace di assumere altro ruolo. E poi, sì, c’è stato chi ha creduto di dover rimanere fedele alla patria aderendo a una sua caricatura, la Repubblica di Salò. Il volto peggiore del fascismo: un regime in declino che portava con sé i valori antidemocratici e sopraffattori del precedente, aggravandoli, con il sostegno di una potenza totalitaria straniera, i nazisti. Ma in cui tuttavia qualcuno si riconobbe per ideale, e non ha senso negarlo oggi.

    Mi sento titolato per dirlo. Io non c’ero. Ma mia madre il 25 aprile si trovava in galera, a San Vittore, con destinazione già prenotata in Germania, in quanto sorella e collaboratrice di un combattente partigiano. Mio zio era comandante di stato maggiore delle brigate Garibaldi. Un militare, un soldato che dopo l’8 settembre aveva scelto di continuare a combattere, ma dall’altra parte: un partigiano liberale, in contrapposizione continua con il suo commissario politico comunista. Ucciso il 26 aprile: da un tedesco, come scritto nei libri di storia. Da partigiani di orientamento diverso dal suo, come pure capitava in quei giorni, come si è tramandato nelle zone dove ha combattuto – fino ad oggi, come ho potuto verificare anche personalmente. Ecco, quella vita, e quella morte, mi hanno sempre spinto a cercare di uscire dalla retorica, dalla visuale a senso unico, dalla contrapposizione manichea tra buoni e cattivi, dove i buoni sarebbero stati tutti da una parte sola. Non è così, non è stato così. La resistenza ha le sue pagine buie, alcune orribili. Così come ci sono state figure positive, che è giusto ricordare, altrove. E in mezzo molti, eroi e anti-eroi della quotidianità. Martiri e banditi. E persone qualsiasi.

    Sarebbe un passo avanti se riuscissimo a riconoscerlo, tutti. Che la ragione politica stava essenzialmente da una parte, pur con i suoi torti (al suo interno c’erano anche sostenitori di un totalitarismo diverso, inaccettabile con gli occhi di oggi nonostante incarnasse per molti dei valori nobili e positivi). Mentre altre ragioni, e altri torti, stavano anche altrove, e ovunque. E sarebbe semplicemente onesto se da parte del governo, e del capo del governo prima di chiunque altro, venissero finalmente parole chiare su questo. Un riconoscimento esplicito che quel 25 aprile ha aperto al mondo di oggi, e il mondo di oggi è molto meglio di quello di prima del 25 aprile. Basterebbe questo. E aiuterebbe il mondo a cui Giorgia Meloni e altri (incluso l’incauto La Russa) appartengono a uscire da un complesso di minorità che non ha più ragione d’essere, acquisendo una legittimità culturale (quella politica gliel’hanno data le elezioni) che ancora non ha, perché ancora ambiguamente ammicca ad un passato che dovrebbe imparare a superare. Nel nome della libertà, della democrazia, e della repubblica: che non hanno colore. Chi oggi governa avrebbe tutto da guadagnarne. Sfuggendo a un’accusa che da parte di molti è solo strumentale, polemica: ma di fatto sostenuta da intollerabili e inaccettabili ambiguità. E aiutando il paese ad andare oltre. Facendo esplicitamente propri i valori fondanti della nostra convivenza civile. E facendo in modo che siano i valori di tutti, nessuno escluso.

     

    25 aprile: le parole per dirlo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere di Verona”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, 25 aprile 2023, editoriale, p.1

    Migrazioni: perseverare è diabolico. Tutti gli errori del governo

    Non sappiamo cosa fare? Facciamo qualcosa che non serve a niente. Tanto per fare. Sembra questa la logica che presiede alle ultime decisioni del governo sul tema delle migrazioni. Una più sbagliata dell’altra. Una più contraddittoria rispetto all’altra. Tutte contraddittorie con degli obiettivi di ragionevole gestione del fenomeno. Ma se errare è umano, e può capitare, quando si è presi alla sprovvista (il problema semmai è lì: essere presi alla sprovvista da un fenomeno che è uguale a se stesso da anni), perseverare è diabolico, e denota ostinazione, più che intelligenza delle cose.

    Mettiamola così. Da un lato abbiamo una crisi demografica devastante, che è cominciata negli anni Novanta. È da allora che abbiamo più morti che nati, anche se ce ne siamo accorti solo ora, che il saldo negativo è arrivato a meno 400mila: una città come Bologna che sparisce ogni anno. Ma i suoi effetti sul mercato del lavoro si misurano ora, dato che chi va in pensione adesso è sostituito da una coorte che è grande poco più della metà: con il risultato di una drammatica domanda di lavoro che non riesce a intercettare alcuna offerta semplicemente perché non c’è, non è mai nata – un dato aritmetico che dovrebbe capire anche un bambino. Dall’altro abbiamo gli arrivi: irregolari perché non esistono (più) canali regolari di ingresso per motivi di lavoro. Qualcuno ha pensato di fare due più due? Purtroppo no. Nessuna organizzazione, nessuna programmazione. Si dichiara un inesistente stato di emergenza (che non c’è: nonostante tutto, il numero di nuovi arrivati è gestibile, e inferiore, come visto, ai bisogni del mercato del lavoro, aggravati dal fatto che sta di nuovo aumentando il numero degli emigranti – è l’evasione, il dato più drammatico, non la presunta invasione) e ci si inventa un commissario straordinario con poteri speciali per gestire gli arrivi, allo scopo di continuare a non far nulla di serio nel gestire le partenze, e affinché l’immigrazione e il mercato del lavoro possano incontrarsi.

    Con quali effetti? In concreto significherà più CAS (centri di accoglienza straordinari) gestiti dai prefetti, che sono le strutture che hanno funzionato peggio, talvolta al limite e oltre il limite dell’illegalità, perché senza alcun obiettivo di integrazione. Non a caso cinque regioni hanno rifiutato di aderire al progetto che istituisce il commissario (alcune delle quali, come Emilia e Toscana, sono tra quelle che l’immigrazione la gestiscono meglio). E sei sindaci (Milano, Torino, Bologna, Firenze, Roma e Napoli) hanno scritto al governo per protestare. Vero, tutte realtà governate dal centrosinistra. Ma anche, semplicemente, quelle con più immigrati, spesso meglio integrati, e che sanno che il tessuto produttivo ne richiede ancora di più. E che, essendo in prima fila nel controllo del territorio, hanno paura, a seguito delle decisioni governative, di avere più irregolari anziché meno, e quindi più insicurezza anziché meno.

    Una pensata ulteriore è infatti l’abolizione della protezione speciale: che consentiva di dare un permesso di soggiorno per motivi di lavoro anche a persone che non erano pienamente richiedenti asilo, ma avevano altri motivi umanitari (peraltro l’Italia, anche con essa, approva meno della metà delle richieste di asilo: la Germania e altri ben più della metà). Togliere la protezione speciale non è in connessione logica con gli obiettivi dichiarati. Farà diminuire gli sbarchi? No. Farà aumentare i rimpatri? No. Consentirà una migliore integrazione? No. Aiuterà la stessa gestione della cosiddetta emergenza? No. Precisamente il contrario. Addirittura, dovranno lasciare gli SPRAR (oggi SAI) coloro che sono già inseriti in un percorso virtuoso di integrazione. Esattamente come accaduto ai tempi in cui Salvini era ministro dell’interno, e aveva introdotto questa norma per la prima volta. Con il brillante risultato di avere più irregolari sul territorio, più disordine, più persone per strada, quindi più percezione di insicurezza, e meno occupabili. Sì, perché a paradosso si aggiunge paradosso, a dimostrazione che non c’è alcun governo delle migrazioni. Tutto ciò accade perché la politica rifiuta di ammettere quello che la demografia e il mercato del lavoro ci mostrano tutti i giorni: che abbiamo bisogno di immigrati (i tanto disprezzati migranti economici), che ne avremo bisogno sempre di più, e che se non arriveranno ci impoveriremo enormemente, come dimostrato dai calcoli della Banca d’Italia citati persino dal DEF (Documento di economia e finanza) del governo. Perché la recessione economica accompagna e segue la recessione demografica in cui siamo in mezzo. Solo un dato: passeremo dagli attuali 3 lavoratori attivi ogni 2 pensionati, all’1 a 1 nel 2040. Come pensiamo di sopravvivere, quanto poveri e indebitati vogliamo lasciare i nostri figli, che peraltro sull’immigrazione non la pensano come noi, solo per nutrire le nostre paure e le rendite politiche di alcuni? Non solo: le diarie per gli immigrati, invece di salire, calano da anni. Risultato? Niente formazione e orientamento al lavoro, niente insegnamento della lingua italiana, niente politiche dell’alloggio, e niente (o molti meno) diritti. Dell’istruzione in passato si diceva: se pensi che sia un costo, prova l’ignoranza. Dell’integrazione si può dire lo stesso. Se pensi che sia un costo, prova il suo contrario. Che, detto brutalmente, è la dis-integrazione. Anche delle buone pratiche già esistenti (non parliamo di inventarne di nuove).

    Nel frattempo, si lancia in pompa magna un condivisibilissimo piano Mattei per l’Africa, che dovrebbe essere la versione nostrana del piano Marshall. Peccato che il piano Marshall prevedesse l’investimento di oltre il 10% del bilancio federale USA a favore delle popolazioni europee, per quattro anni. E il nostro cominci invece con il taglio dei fondi alla cooperazione. Possiamo immaginare con quali efficacissimi risultati.

     

    L’errore si ripete, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto, Corriere di Bologna, Corriere del Trentino, Corriere dell’Alto Adige”, editoriale, p.1

    Immigrati: l’ipocrisia del click day

    Tra una settimana, il 27 marzo, alle ore 9, è previsto il famigerato click day per l’assunzione di immigrati. Una procedura tra il contorto e il perverso che dovrebbe consentire l’ingresso regolare in Italia di oltre 80mila lavoratori, assunti direttamente dalle aziende (per essere precisi, facendo finta che la cifra non tonda sia veramente frutto di un attento studio corrispondente al fabbisogno – e non lo è, nemmeno alla lontana –: 82.705, di cui 38.705 per lavoro non stagionale e autonomo e 44.000 per lavoro stagionale). Il decreto che lo prevede indica anche i settori in cui questo è possibile, ad esclusione di tutti gli altri, dove pure il fabbisogno di manodopera è presente.

    In realtà il meccanismo è più complesso di così: la burocrazia ci mette sempre entusiasticamente del suo per trasformare quella che potrebbe essere la normalità in un incubo. La finzione, accettata come tale, prevede che, prima, si superino di slancio alcuni ostacoli: a) le aziende presentino agli uffici competenti sul territorio il modulo di richiesta per lavoratori non dell’Unione Europea non stagionali; b) i Centri per l’impiego pubblicizzino gli annunci agli stranieri già residenti sul territorio, in modo da proporli alle aziende; c) se nessun candidato si presentasse, o se il Centro per l’impiego non rispondesse entro 15 giorni (ciò che costituisce la normalità, da tutti conosciuta), le aziende acquisiscono il diritto di costringere i loro impiegati a stare dalle 8 e 55 del mattino con il ditino pronto sul portale dedicato del Ministero dell’Interno, sperando in una botta di fortuna, che solo alcune avranno. Per il lavoro stagionale in agricoltura la procedura è semplificata: e parliamo di un settore dove un terzo delle ore lavorate lo sono per mano straniera. Di fatto, sia la possibilità delle imprese di assumere, sia quella di alcuni immigrati di regolarizzarsi (perché a questo serve il click day, e tutti lo sanno, pur facendo finta che non sia così: ad assumere chi è già in Italia irregolarmente – spesso perché diventato irregolare a causa della farraginosità delle norme, o dei ritardi nell’erogazione dei permessi – e non a far veramente arrivare qualcuno da fuori), è affidata al caso: un’assurda e inquietante rappresentazione tecnologica del fato, che anche quest’anno, come ogni anno, deciderà del destino delle persone, di chi è sommerso e di chi è salvato (e delle imprese che assumeranno e quelle che no).

    Ora, poiché tutti sanno che si tratta di una complicata presa in giro, per giunta largamente insufficiente rispetto al fabbisogno, non sarebbe più serio e più civile dire esplicitamente come stanno le cose, ammettere che abbiamo centinaia (non decine) di migliaia di posti di lavoro vacanti, e centinaia (non decine) di migliaia di irregolari che è conveniente per tutti regolarizzare, e consentire un meccanismo (adottato da anni in paesi assai civili e seri dell’Unione Europea, peraltro) di sanatoria individuale (la si chiami regolarizzazione, se la parola fa paura), che consenta alle imprese di assumere un irregolare che già conosce, su semplice richiesta del datore di lavoro o del lavoratore, riducendo al minimo gli adempimenti burocratici necessari?

    Poi, magari, si potrebbero e dovrebbero invece concentrare le energie e le risorse sulla formazione professionale delle figure necessarie, e sulle politiche dell’alloggio: aspetti, in particolare il secondo, su cui le imprese – che protestano giustamente per la mancanza di manodopera e la complessità della burocrazia – invece glissano felicemente, anche quando ammettono di non avere bisogno solo di braccia, ma di persone. Di fatto, in molti ambiti (dal turismo all’agricoltura), su questo si sono fatti persino passi indietro rispetto ai tempi delle mondine, a cui almeno un tetto veniva fornito dal datore di lavoro. Mentre molto ci sarebbe da fare, insieme: imprese, organizzazioni dei lavoratori, ma anche regione e enti locali, che invece nella maggior parte dei casi se ne lavano bellamente le mani, salvo lamentarsi degli effetti secondari negativi della gestione dei fenomeni migratori, incolpando magari lo stato o l’Unione Europea se gli immigrati dormono sulle panchine (salvo presenza di dissuasori, o innaffiamento notturno, come qualche volta è persino successo, in passato).

    Quello che occorre è semplicemente una onesta assunzione di responsabilità, da parte di tutti. Altrimenti, teniamoci il click day. Senza lamentarci, però, né dell’irregolarità degli immigrati né della mancanza di lavoratori.

     

    Immigrati, il click day e l’ipocrisia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 21 marzo2023, editoriale, p.1

     

    Migranti e sbarchi: la retorica non serve

    La retorica non serve. La strumentalizzazione politica ancora meno. Sono morti, e non hanno colpe. Ma non è una notizia inaspettata, meno ancora sorprendente. Ce ne sono stati altri in passato, di naufragi di migranti. Ce ne saranno in futuro. Ma c’è anche uno stillicidio quotidiano di morti che fanno meno notizia, perché non accadono tutte insieme, non fanno massa, e al contempo sono fatto ordinario, quotidiano (avvengono letteralmente tutti i giorni), anche se restano impercepite ai nostri occhi. In mare, ma anche via terra, sulla rotta montagnosa, piena di guardie e di confini da attraversare, dei Balcani, non meno pericolosa di quella del Mediterraneo centrale e del Mediterraneo orientale.
    Inutile, meschino, triste, impudico, trasformare i cadaveri, le famiglie distrutte, il dolore dei sopravvissuti, i bambini annegati, in uno strumento di polemica politica. Con chi da una parte accusa il buonismo immigrazionista (magari impersonato dalle ONG) di fungere da fattore di attrazione, producendo le partenze, e chi dall’altra parte accusa il cattivismo antiimmigrazionista di impedire i salvataggi, producendo gli annegamenti. Né gli uni né gli altri sono la causa dell’ennesimo naufragio. Né gli uni né gli altri l’avrebbero potuto impedire.
    Come sempre, la questione è più complessa, le risposte necessarie diversificate, il risultato comunque incerto, l’andare per tentativi ed errori una necessità e un rischio da correre. Ma è certo che molto si potrebbe fare, perché le cose vadano altrimenti. E qualunque cosa sarebbe molto più del niente o quasi niente attuale.
    Cominciamo dall’inizio. L’Europa, tutta, e l’Italia peggio di tutti gli altri paesi, è in calo demografico, ha bisogno di manodopera, e continua a importarla facendo finta che non sia così. La prima cosa da fare è ammettere il dato, invece di negarlo, e dividersi quindi sulle soluzioni possibili, sui modi di gestirla, l’immigrazione necessaria, invece di dividersi sull’esistenza del problema. Tutto potrebbe e dovrebbe discendere da lì: modi alternativi di arrivare, regolamentati, selezionati, ma comunque gestiti, in maniera legale, con mezzi normali (l’aereo, la nave), in tempi normali (ore, non mesi o anni, come capita a molti), con costi (umani ed economici) accettabili anziché insostenibili, con permessi di soggiorno per ricerca di lavoro, visto che quello è l’obiettivo reale sia di chi arriva sia di chi li riceve, anziché improbabili richieste di asilo (che poi rigetteremo in buona parte, producendo irregolarità), con politiche di integrazione sociale e culturale davvero praticate, e via di conseguenza. Da qui discenderebbe anche il resto: accordi con i paesi di partenza, collaborazione interstatuale per combattere le migrazioni clandestine e le mafie transnazionali che le gestiscono (ci sarebbe, se ci fossero canali legali, che fornirebbero anche la giustificazione morale per combattere con forza gli arrivi irregolari), cooperazione allo sviluppo (il tanto citato e mai praticato, nemmeno da chi lo evoca continuamente, “aiutiamoli a casa loro”, che poi è sempre una convenienza reciproca, come ha mostrato a suo tempo il piano Marshall). E, a valle, accordi di redistribuzione – o, nel caso, di respingimento – sensati e condivisi tra i paesi di arrivo.
    Certo, dovrebbe essere una politica europea. Sarebbe meglio e funzionerebbe meglio. E c’è un’ignavia egoista dei paesi che non sono alla frontiera esterna della Unione Europea, che non vedono arrivare gli sbarchi e nemmeno i rifugiati via terra, nonostante i nuovi muri elettrificati, che va combattuta. È curioso tuttavia che si lamentino dell’inesistenza dell’Europa, o della sua poca efficienza, coloro che rifiutano di darle i mezzi e il potere decisionale per agire, mantenendo le politiche dell’immigrazione come competenza esclusiva nazionale, esercitando il proprio veto ad azioni comuni, salvo lamentarsi della loro assenza. Detto questo, anche i singoli stati potrebbero fare molto, anche da soli. Ma occorre volerlo, e prima ancora occorre capire che sarebbe necessario. Che è ora di smetterla di titillare gli istinti peggiori della pubblica opinione, per fare leva invece sulle sue emozioni e sui suoi interessi, ragionando sulle convenienze e le decisioni concrete, a livello pratico, prima ancora di insistere su più o meno sacri principi che poi sono usati solo strumentalmente, e comunque convincono solo i già convinti. La posta in gioco non è solo la vita degli esseri umani che arrivano. È la de-umanizzazione di chi li vede arrivare, e non fa niente. E tra un po’ non sentirà più niente.

    Migranti, c’è una via d’uscita, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 marzo 2023, editoriale, p.1

    Terremoto e migrazioni: il nesso che non si vede (ma c’è)

    Il devastante terremoto in Siria e Turchia avrà conseguenze di medio periodo anche inaspettate, che non riguardano lo sciame sismico e il movimento delle placche tettoniche, ma lo sciamare delle persone da un luogo all’altro e la mobilità umana. E curiosamente coinvolge due paesi che nel recente passato hanno svolto, su questo tema, un ruolo opposto.

    La Siria, ha visto andarsene milioni di suoi concittadini, esausti da decenni di guerre, dittatura, violenze, terrorismo di stato e dello Stato Islamico, oltre a ordinaria fame e disoccupazione, che hanno trasformato il paese in una specie di buco nero della storia. Molti siriani sono stati protagonisti dell’esodo di migranti forzati nei Balcani del 2015, una specie di epica minore, priva tuttavia di un Omero che la celebri, che molti esuli conoscono bene ma che noi nemmeno immaginiamo: e che in quell’occasione, dopo il ritrovamento su una spiaggia turca del cadavere in maglietta rossa del piccolo Aylan Kurdi e le immagini di milioni di disperati in cammino attraverso le frontiere della ex-Jugoslavia, portò all’inaspettata apertura di Angela Merkel, che fece entrare in Germania un milione e mezzo di rifugiati in poco più di un anno. Facendo il bene loro e del paese che li ha accolti, dando a una nazione allora con il peggior bilancio demografico d’Europa, insieme all’Italia, nuove braccia e nuova linfa vitale di cui ha beneficiato (lasciando l’Italia da sola in quell’incomoda posizione). La Turchia, invece, è il paese che noi europei stiamo finanziando perché li blocchi, i migranti, facendo per così dire da tappo nei confronti dell’Asia, e se li tenga al posto nostro: a pagamento, e regalandole un’arma di ricatto, una vera e propria arma di migrazione di massa, a cui il governo turco lascia occasionalmente sparare qualche colpo (lasciando partire qualche barcone), quando è il momento di ricordare all’Europa di staccare un nuovo assegno.

    Il terremoto avrà conseguenze anche sulle migrazioni che coinvolgono questi paesi. I siriani che vogliono andarsene aumenteranno ancora massicciamente di numero. Ma aumenteranno anche i turchi (e i migranti transitoriamente ospitati in Turchia) che vogliono fare la stessa cosa, mentre la Turchia come paese avrà bisogno di risorse per la propria ricostruzione, e quindi le sue pressioni si faranno più esigenti. C’è da sperare, anche se è difficile arricchire la speranza di altrettanta convinzione (i segnali scarseggiano) che qualche lezione, dal 2015, sia stata appresa (da altri paesi europei, Germania in primo luogo, probabilmente sì: dall’Italia, purtroppo, dubitiamo, ma non di meno ci sembra necessario segnalarlo). E che quindi all’aiuto umanitario si affianchi un’intelligente, e vantaggiosa per tutti, politica delle migrazioni (che poi è essa stessa un aiuto umanitario in altra forma), che si proietti sui prossimi anni anziché limitarsi ai pochi giorni dell’emotività: o che almeno si abbozzi un ragionamento su qualcosa che, pianificato o meno, in ogni caso succederà. Sarebbe l’occasione di trasformare una disgrazia in un’opportunità, anche di riflessione, per governi e cittadini: per arrivare a un ripensamento delle nostre politiche migratorie, o per meglio dire della mancanza delle stesse, che oggi ci affligge, e ci rende miopi – al limite della cecità.

     

    Lo sciame sismico e i migranti, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 febbraio 2023, editoriale, p. 1

    Governare le migrazioni, non le ONG

    La geniale trovata di far percorrere 1200 chilometri in quattro giorni di navigazione a una nave che si trovava tra l’Italia e l’Africa, per scaricare i migranti a La Spezia, salvo poi riportarne una parte a Foggia in autobus, percorrendo altri 750 chilometri in senso contrario, come appena accaduto con la Geo Barents di Medici senza frontiere, dà l’idea precisa di come si continui, di fronte alle migrazioni, a inventare iniziative estemporanee senza capo né coda, giusto per mandare una qualche ottuso e contraddittorio segnale di attivismo all’opinione pubblica, senza che nulla di sostanziale accada. Illudersi di fermare le migrazioni irregolari bloccando l’attracco delle navi delle Organizzazioni non governative o rendendo più difficile la loro attività, del resto, è come cercare di fermare l’acqua corrente riportandola dentro il rubinetto usando un colino: il flusso non si ferma comunque, è impossibile influire con questo comportamento sulla logica che ha portato l’acqua nel rubinetto, e comunque il colino è l’attrezzo meno adatto per farlo – alla fine l’acqua, seppure più lentamente, passa comunque. In più, incidentalmente, gli arrivi attraverso le navi delle ONG sono a loro volta una minoranza degli arrivi totali via mare, che a loro volta non tengono conto di quelli via terra.

    Ecco, insistere sulla stretta alle ONG dà l’idea di quanto la politica non sappia che pesci pigliare, e si arrabatti su soluzioni che tali non sono, da buttare in pasto a un’opinione pubblica che peraltro non ci crede più. L’errore sta proprio nel focalizzarsi sugli arrivi, quando quello che conta veramente sono le partenze. Perché il problema è lì. È su quel fronte che occorrerebbe lavorare: non con iniziative di bandiera, ma con un paziente lavoro di cucitura diplomatica all’esterno, e una intelligente apertura legislativa alle migrazioni economiche all’interno, spiegando all’opinione pubblica che è necessario, e perché (le ragioni demografiche e di mercato del lavoro sarebbero facilmente spiegabili: se non lo si fa è perché non si vuole perdere la rendita politica – sempre più modesta, abbiamo la sensazione – dell’immigrato come capro espiatorio di problemi che non ha creato lui). Rendere le migrazioni possibili legalmente, con canali dedicati, concordati con i paesi di partenza, meccanismi di selezione sulla base delle capacità professionali, del titolo di studio e della conoscenza della lingua, e precisi accordi di rimpatrio degli irregolari, consentirebbe di offrire una via alternativa ai migranti, più sicura e garantita (perché fargli attraversare prima il deserto e poi il mare, o una mezza dozzina di fredde e militarizzate frontiere balcaniche, mettendoci un anno o più, con sofferenze inenarrabili che poi pesano anche sulle loro forze e la loro capacità di integrazione, quando potrebbero prendere anche loro – come noi quando andiamo da loro – un volo low cost e arrivare in poche ore?). Riaprire canali controllati di ingresso è necessario tanto per loro (ci sarebbero meno morti e più speranze) quanto per noi, che almeno sapremmo chi viene e dove va, invece di perdere il controllo di un’immigrazione irregolare tra i cui effetti c’è l’aumento del numero di minori non accompagnati, l’abbassarsi del livello di istruzione dei migranti, il crescere dell’insicurezza tra i cittadini, ma anche il moltiplicarsi dei guadagni di pericolose mafie transnazionali che poi reinvestono nelle economie legali dei loro e dei nostri paesi, inquinandole.

    Conseguenza a valle di questo assurdo meccanismo è che si stima che in Europa ci sia almeno un 2% di popolazione irregolare, senza diritti e impossibilitata per questo solo fatto a rimanere nel circuito della legalità: un’irregolarità (mancanza di documenti e permessi) infatti tira l’altra (abitazione non dichiarata, lavoro in nero, mancanza di copertura sanitaria, ecc.), con le conseguenze che si possono immaginare, e che per nostra fortuna comportano meno frequentemente di quanto sarebbe lecito ipotizzare l’ingresso nei circuiti dell’illegalità e della delinquenza veri e propri.

    Nessuna soluzione sarebbe definitiva. Non si può abolire l’immigrazione irregolare per legge: una quota c’è sempre stata e sempre ci sarà. Ma almeno avremmo fatto il possibile per diminuirne l’entità, e anche per rendere più umano un meccanismo che oggi non lo è.

     

    Un vero governo dei flussi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 febbraio 2023, editoriale, p.1

    La società della prevenzione (del vino e d’altro)

    Viviamo in una società che sente di doversi e doverci proteggere da tutto, e che spesso ci impone di farlo. Preventivamente. Ragionevole, all’apparenza: salvo che la deriva comincia a sembrare un po’ estremista. Tra poco il casco protettivo, che è l’immagine simbolica che meglio riassume la nostra ossessiva ricerca di sicurezza, e che abbiamo giustamente introdotto nelle più svariate attività, diventerà una consuetudine, se non un obbligo, anche in casa, per proteggere i nostri bimbi dagli spigoli e gli anziani dalla caduta dalle scale. Una metaforica cintura di sicurezza ci avvolge in un numero sempre maggiore di attività. Tutto giusto, tutto comprensibile, tutto spesso necessario e in alcuni casi doverosissimo: pensiamo alle precauzioni, purtroppo ancora mal rispettate e quindi insufficienti, che ci proteggono dagli incidenti sul lavoro, o all’obbligo vaccinale, che ho difeso strenuamente proprio su queste pagine. E tuttavia, a volte, quando se ne estende troppo l’ambito di applicazione, più che la cura o la soluzione, questo atteggiamento mentale comincia ad assomigliare pericolosamente alla malattia, o a una sua caricatura.

    Pensiamo alla attuale discussione sull’introduzione, anche sulle bottiglie di vino, di apposite minacciose etichette tipo quelle che ci sono sui pacchetti di sigarette. E sulla sua supposta pericolosità intrinseca, cancerogenicità o quant’altro. È una mentalità che sembra figlia della ossessione di cui sopra. Tutto, potenzialmente, fa male. Tutto è pericoloso. Tutto può essere persino mortale. Il fumo. Il vino e gli alcolici bevuti in eccesso. Ma anche il caffè, o le bevande zuccherate. Persino l’acqua, volendo, in quantità eccessive si usa in uno specifico tipo di tortura (sì, lo so, è un paradosso: ma spesso ci aiutano a comprendere meglio la realtà). Poi si comincia con i cibi, e se si eccede non so quanti se ne salvano: a cominciare naturalmente dal cibo spazzatura, per il quale tuttavia non si parla di etichettatura (dovremmo etichettare interi scaffali di supermercato). Si prosegue con gli attrezzi con cui li prepariamo (il terribile coltello). Si continua con l’automobile. Ma anche la bicicletta, si sa. Persino l’inventore del jogging, attività salutista per eccellenza, Jim Fixx, diventato ricco e famoso con i suoi libri e i suoi insegnamenti, è morto di infarto a soli 52 anni, proprio al termine della sua corsa giornaliera. Mentre Winston Churchill, che quando gli si chiedeva il segreto della sua longevità rispondeva “Lo sport. Mai fatto”, è campato 91 anni. Non arriviamo a dedurne che la corsa fa male e invece vino bianco e sigaro a colazione, per poi proseguire con whisky e un debole per lo champagne, come pare fosse la giornata del primo ministro britannico, facciano bene. Ma qualcosa, anche questo, ci dice.

    Per farla breve: tutto, potenzialmente, fa male. Tutto, in dosi eccessive, è pericoloso. E il comportamento di chi è pericoloso anche per altri va doverosamente disincentivato e punito (ad esempio chi guida in stato di ubriachezza o sotto gli effetti della droga). Dubitiamo tuttavia che la soluzione sia riempirci di etichette minacciose: in frigo, sulle posate, sulla portiera dell’auto. Tanto varrebbe che lo Stato, o l’Unione Europea, o il necessario – a questo punto – Ministero della Prevenzione, presupposto del Grande Fratello (l’originale, quello di Orwell, non la boiata televisiva) incoraggiassero una campagna permanente di pubblicità progresso con una sola frase: “Memento mori”.

    Il vino, per dire, ha una storia millenaria, legata alla religione, alla cultura, alla socialità (attività in sé lodevoli, necessarie, e pure notoriamente curative). Dal “Symposion” di Platone a “In vino veritas” di Kierkegaard, passando per l’ubriacatura di Noé e il miracolo delle nozze di Cana (dove dubitiamo ci si sia fermati alla modica quantità di un bicchiere), esso è parte costitutiva di un processo di civilizzazione. Possiamo imparare a bere meno e meglio. Ma non sarà il terrorismo psicologico un po’ infantile di una stupida etichetta a migliorarci. Semmai un raffinamento progressivo del gusto: che si impara con la pratica, con l’educazione guidata, non con le minacce o i divieti.

    Forse dovremmo imparare dal dibattito bioetico: in cui, di fronte all’accanimento terapeutico (non è forse lodevole far vivere le persone più a lungo possibile?), ci si comincia a interrogare se quello che ci occorre sia dare tempo alla vita o vita al tempo. Io propendo per la seconda ipotesi.

     

    La società della prevenzione. Il vino (e non solo), in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 gennaio 2023, editoriale, p. 1

    Jacinda Ardern, la politica come professione e la religione del lavoro

    Jacinda Ardern, la politica come professione e la religione del lavoro. Una questione di genere. Una riflessione per tutti.

    Le dimissioni anticipate, per sua volontà e scelta, della premier neozelandese Jacinda Ardern, sono un potente messaggio anche per noi, che viviamo dall’altra parte dell’emisfero. Ci dicono due cose importanti, e (ri-)aprono una questione che ci accompagnerà a lungo.

    La prima considerazione, il primo messaggio, riguarda naturalmente la politica: le condizioni in cui si svolge, il coinvolgimento che richiede. Fare il politico (non c’è bisogno di essere primo ministro, lo sa anche un sindaco) è un mestiere totalizzante. Non è il solo, certo: dall’imprenditore al parroco, dall’operatore umanitario allo sportivo, lo possono essere molti altri, che tendono a mangiare tutto il tempo disponibile, se non si è capaci di porre loro dei limiti. A differenza di altri, tuttavia, un politico, specie di altissimo livello, non può scegliere: deve farsi coinvolgere, perché sono le urgenze, più che l’ordinaria amministrazione, a travolgere. In questi casi il limite è difficile da porre, nel corso dell’espletamento dell’incarico. Da qui il grande insegnamento delle cariche a termine, la saggezza del limite nel numero di mandati. E, anche, la diffidenza che dovremmo avere – e che invece ci manca totalmente – nei confronti di chi questi mestieri li pratica troppo a lungo, o peggio non sa farne a meno. Eppure il fatto che gesti come quelli di chi lascia in anticipo perché sente di non farcela più (da Jacinda Ardern a Benedetto XVI) ci facciano simpatia, dovrebbe farci capire la stortura e anche l’innaturalità diremmo patologica del comportamento opposto.

    La seconda considerazione riguarda tutti noi: specialmente le culture e i luoghi in cui il lavoro è considerato alla stregua di una religione (come da noi). Noi crediamo di esserci liberati progressivamente dal lavoro, immaginiamo che le nostre società siano più avanzate e progredite perché ci consentono di guadagnare di più, e con questo di concederci lussi impossibili altrimenti. Il problema è che i veri lussi sono altri, e il primo di essi è precisamente quello di non dipendere più dal lavoro, non esserne schiavi. Che è un insegnamento che ci accompagna dall’inizio del mondo. Noi abbiamo un’idea distorta delle popolazioni dette primitive, quelle che vivevano di caccia e raccolta. Le compiangiamo, perché costrette a procurarsi il cibo tutti i giorni, altrimenti non avevano, letteralmente, di che vivere. Il problema, come ci insegnano da un lato le testimonianze di archeologi e paleontologi, dall’altro gli studi antropologici su popolazioni ancora esistenti in qualche landa del nostro mondo, e su culture diverse dalla nostra (come ‘L’economia dell’età della pietra’ dello studioso americano Marshall Sahlins), è che la nostra interpretazione della loro vita si fonda su un grande equivoco: è vero che la durata della loro vita era ed è minore, ma la qualità della medesima prevedeva di dedicare solo alcune ore alla ricerca di cibo, e il resto della giornata spenderlo, letteralmente, in chiacchiere, rituali, decorazioni, creazione di gioielli e ornamenti, feste, danze, giochi, riposo, stati alterati e ubriacature di qualche tipo, attività effimere come acconciarsi i capelli, truccarsi e tatuarsi, grattarsi e godere un qualche tipo di vita sessuale, di solito precoce e spesso promiscua. Non è un caso che il pensiero utopistico degli ultimi due secoli, accompagnato da molti tentativi di metterlo in pratica, dai primi anarchici alle comuni hippy, fino ai pragmatici cohousing urbani e alla progettazione di smart cities odierni, abbia dedicato molta attenzione (dal modo di lavorare ai trasporti, dalle concezioni del lavoro di cura alla vivibilità degli spazi collettivi e alla salubrità dell’ambiente) a lavorare meno e meglio (Keynes un secolo fa suggeriva che sarebbero potute bastare tre ore al giorno per soddisfare i bisogni dell’Adamo che è in noi…), e a dedicare più tempo a coltivare e favorire le relazioni, intese come piacere condiviso, con tempi e luoghi dedicati.

    La questione che si (ri-)apre e che ci accompagnerà a lungo è invece, naturalmente, quella di genere. Sono più spesso le donne che si pongono (anche perché costrette a farlo dai ruoli così come concepiti nella nostra cultura attuale) il problema della conciliazione tra famiglia e professione, tra soddisfazione lavorativa e coltivazione di relazioni significative, tra ben-essere e guadagnare. Il problema è che non faremo sufficienti passi avanti se non diventerà una condizione comune, una aspettativa condivisa, trasversale ai generi.

    Cosa c’è di emergenziale nell’emergenza migranti?

    La cosiddetta “emergenza migranti” in Veneto ri-alimenta purtroppo i problemi di sempre, senza aumentare di un pollice la nostra comprensione del problema, e senza quindi avvicinarci nemmeno per sbaglio a una soluzione. La stessa esistenza di questa presunta emergenza dimostra la totale inconsapevolezza e dunque incapacità della politica a comprendere le ragioni di quello che definiamo problema, e che è innanzitutto un fatto, con cui dovremmo confrontarci ordinariamente, e non in una logica perennemente emergenziale (non è più tale un qualcosa che si ripete identico da un paio di decenni).

    Cominciamo dai dati. Gli sbarchi sono ripresi in maniera significativa (a margine: gli sbarchi sono ciò di cui la politica e i media parlano, ma sono lungi dal rappresentare la totalità degli arrivi): a dimostrazione del fatto che non conta e non cambia nulla chi è al governo – conta quello che si fa e soprattutto non si fa. Sarebbe stato stupefacente il contrario, peraltro, dopo il fermo della mobilità umana, a tutti i livelli, nel periodo Covid (anche le emigrazioni, per capirci, sono ricominciate in maniera massiccia). Oggi in Veneto ci sono poco più di seimila persone nella rete di ospitalità regionale, e si parla di emergenza. Poiché il Veneto rappresenta un decimo del PIL e della popolazione italiana, vorrebbe dire che l’Italia, un grande paese di sessanta milioni di abitanti che si picca di essere una grande potenza industriale e politica, non sarebbe in grado di ospitare sessantamila persone di cui sta esaminando i documenti (in realtà sono molte di più, ma suddivise in maniera sperequata tra le regioni, e il Veneto è tra quelle avvantaggiate). Magra figura, rispetto ai paesi con cui ci compariamo abitualmente. Solo nel 2021 in Europa sono state presentate oltre seicentotrentamila richieste di asilo, un quarto delle quali in Germania, un decimo in Francia, e più che da noi anche in Spagna. Ma stiamo parlando di cifre assolute: in percentuale sulla loro popolazione, moltissimi paesi ne hanno molte più di noi (e noi precipitiamo al quindicesimo posto in Europa).

    Peraltro il Veneto ha contrattato di ricevere solo il 6% del totale dei richiedenti asilo ospitati nelle strutture gestite dal pubblico, in Italia: praticamente, in percentuale, la metà delle sue potenzialità (che dovrebbero corrispondere alle sue responsabilità), e pure, all’ingrosso, la metà della percentuale di migranti che ci vivono e la metà della percentuale di PIL che producono in regione.

    Per giunta, l’Italia per l’accoglienza dei richiedenti asilo va al risparmio. Le cifre pagate dallo stato (molto inferiori agli investimenti di altri paesi) sono insufficienti per una decente ospitalità: figuriamoci per attivare politiche di integrazione (insegnamento di lingua e cultura, formazione professionale, orientamento al lavoro). Ma il costo della non integrazione è di molto superiore. Come per l’istruzione, se pensi che sia costosa, prova l’ignoranza…

    Come si può notare, siamo di nuovo a parlare dell’anello finale, l’accoglienza, senza un cenno a tutta la filiera che la precede, a cominciare dalle procedure di ingresso e dalla legislazione complessiva sulle migrazioni (oggi entrare legalmente in Italia e in Europa è praticamente impossibile: l’unico modo per farlo è farsi passare per richiedenti asilo anche quando non lo si è, ed ecco spiegati i numeri di richieste e pure gli sbarchi, con le implicazioni in termini di accoglienza, in un circolo vizioso di cui non possiamo lamentarci, perché l’abbiamo creato noi: semmai potremmo finalmente modificarlo, ma dalla politica non giungono segnali in tal senso).

    Infine, il dato più clamoroso di tutti, con cui dovremmo confrontarci. Se consideriamo poco più di seimila persone in accoglienza un’emergenza, ci sarebbe un modo molto semplice per risolverla, svuotando i centri. Seimila persone è in grado di assorbirle, senza costi e aiuti pubblici, il mercato del lavoro di una sola delle province venete, in non più di ventiquattr’ore: gli imprenditori farebbero a gara. Se ciò non avviene, vuol dire che il problema, e l’emergenza, sta altrove: nella legislazione, nella burocrazia, nella totale incomprensione della posta in gioco demografica, economica e politica. Potremmo risolvere il problema a vantaggio di tutti in poco tempo. Se non lo si fa, guardiamoci in faccia, e domandiamoci il perché.

     

    I migranti e la vera emergenza, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 15 gennaio 2023, editoriale, p.1