Carcere: il modello sbagliato

Quando scoppiano le carceri, a causa del sovraffollamento e delle condizioni di vita dei detenuti, la risposta che viene data in automatico è: più carceri, più agenti. Ma se il problema fosse nel fatto che la risposta è sbagliata perché la domanda è malposta? Anche perché non si tratta di un evento eccezionale, come viene raccontato: succede tutte le estati, occasionalmente anche in altri periodi dell’anno, mentre i suicidi e gli atti di autolesionismo sono una costante, sia tra i detenuti che tra le guardie (che hanno il più alto tasso di suicidi e di burnout tra tutte le forze di polizia). Il che dovrebbe farci riflettere sulla bontà del modello, che invece viene reiterato senza riflessione alcuna dalla politica: il rimedio a ogni problema sociale è sempre l’inasprimento delle pene e l’invenzione di nuovi reati, più galera (“buttando via la chiave”, come amano dire molti), più repressione. E se questo producesse il male anziché diminuirlo? O si limitasse a nasconderlo inutilmente sotto il tappeto?

A cosa servono davvero le prigioni? In origine erano case di lavoro, di cui si supponeva una funzione educativa, o quanto meno socialmente utile, correttiva (non a caso si chiamavano anche correzionali). In teoria dovrebbero essere dei luoghi dove riflettere sui propri errori: dove scontare una pena, cioè un dolore, ma anche avere occasione di fare penitenza (da cui penitenziario). E più recentemente si è posto l’accento, oltre che sulla sua funzione punitiva e repressiva, e su quella preventiva e di deterrenza, anche su quella rieducativa, riabilitativa (anzi, col passare degli anni, con pietosa menzogna sociale, l’accento è stato sempre più messo sulle ultime, anche se continuavano a prevalere le prime). Ma in Italia continua a prevalere la funzione ‘immobilizzativa’, priva di qualsiasi utilità individuale e di risvolto sociale, un mero parcheggio umano. In queste condizioni, a che cosa serve?

Parliamoci chiaro. Il tasso di recidiva, in Italia, è di oltre due terzi: 2,3 detenuti su 3 tornano a delinquere (mentre tra quelli che imparano un lavoro è molto più ridotto, ma sono pochi). Siamo a oltre il doppio della media europea. Il che significa che il sistema è fallimentare, e non risponde alla sua ragion d’essere: nasce per produrre sicurezza e crea le condizioni per il suo opposto, ovvero nuove minacce alla sicurezza sociale. Se una scuola avesse due terzi di bocciati, un ospedale la stessa percentuale di decessi, o un’azienda di prodotti difettati, diremmo che è un disastro, li smantelleremmo, ragioneremmo sugli obiettivi che vogliamo raggiungere, e ci ingegneremmo per inventare qualcos’altro. Invece con il carcere si fa finta di niente, riproponendo sempre le stesse ricette che non funzionano. Aggiungiamoci gli altri problemi. In Italia quasi un terzo dei detenuti sta scontando una condanna non definitiva (in Europa è circa un quinto), la durata media della detenzione è quasi doppia della media europea, come doppia è la percentuale di persone condannate per reati legati agli stupefacenti, mentre la percentuale di persone in carcere condannate per reati non gravi è tra le più alte d’Europa. Vuol dire che è il sistema che dovrebbe chiudere, buttando via la chiave.

Aggiungiamoci il problema dei costi. Il carcere è costoso, le comunità (e altre pene alternative) costano meno e hanno tassi inferiori di recidiva. Eppure si vogliono costruire nuove carceri anziché nuove comunità, o comunque incentivare altre forme di pena alternativa. Ce n’è abbastanza per dire che il problema non è solo chi è dentro il carcere (che così come stanno le cose, resta un problema irrisolto), ma il carcere in sé, l’idea che lo sottende, che finisce per riprodurre il problema che sarebbe chiamato a risolvere. È su questo che dovremmo cominciare a ragionare. Per convenienza, non solo per umanità.

 

Carcere, il modello sbagliato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 luglio 2024, editoriale, pp. 1-5

Il vero mondo al contrario. Quando il colore della pelle è ancora un problema.

Spesso i piccoli fatterelli quotidiani sono capaci di aprire sprazzi di comprensione della società, illuminandone i lati oscuri, più di tante drammatiche notizie di cronaca, quelle che vanno in prima pagina. Ecco, ci occupiamo oggi di una di queste storie minori.

La prendiamo per buona, per come è stata riportata anche da questo giornale. Facciamo finta che sia una storia vera, anche se ci piacerebbe che non lo fosse. Ma prendiamo per buono che lo sia, perché è del resto assai verosimile: succede tutti i giorni. Ed è successo anche in un condominio vicino a Piazza dei Signori, a Treviso. Dove una signora si è sentita in diritto di esprimere ad alta voce e in presenza degli interessati (che per fortuna, essendo stranieri, non hanno capito) il suo parere sul fatto che non voleva vedere nel suo stabile “persone così” (nigeriani, neri), ospiti peraltro di un altro condomino. Il quale si è pure visto arrivare una mail e una telefonata di critica, per non dire di minaccia, o di protesta, da parte dell’amministratore di condominio e dell’agenzia immobiliare.

Ecco, la storia di Treviso è una storia emblematica. Il fatto che sia ancora possibile, nel 2024, immaginare che una persona si senta in diritto di protestare e strepitare, in maniera per così dire ovvia e naturale, e trovi l’ovvia e naturale complicità di chi pretende di gestire con le proprie regole un seppur minuscolo potere, perché nella sua casa ci sono anche (transitoriamente: e poco importa che si tratti di artisti africani ospiti della Biennale!) delle persone di colore, dei neri, è una cosa che ci riporta terribilmente indietro. Ma non alla preistoria: dopo tutto i Sapiens si sono mischiati con i Neandertal, e noi portiamo nel nostro DNA i geni di entrambi – e quelle sì, dopo tutto, erano più credibilmente delle specie diverse. Peggio: in un altro mondo. Che dà l’idea di tutta l’arretratezza di un pezzo di Veneto profondo, anche di quello che si crede ricco, perché benestante, magari istruito, e quindi in qualche modo superiore, e con più diritti: anche quello di decidere sui diritti degli altri. Questi comportamenti – certo non generalizzabili, e non lo vogliamo fare: c’è anche l’altro Veneto, e ci piace pensare sia maggioritario – sono infatti trasversali: attraversano le classi sociali, i livelli di istruzione, la distinzione città-campagna, il fatto di essere uomini o donne, credenti o non credenti, di destra o di sinistra.

Quello che stupisce è che questo non stupisca. Che le autorità non si sentano in dovere di mandare un segnale a nome della città: e cominciare a intraprendere un’opera educativa che vada nella direzione opposta. Che i membri del palazzo in cui il fatto è accaduto non si indignino contro chi ha creato il caso. Che i familiari, le amiche, i colleghi, i conoscenti (dal panettiere al parrucchiere, dal barista a chi la serve nel negozio di moda preferito) non stigmatizzino questo comportamento. Che in qualche modo lo stesso astio irriflessivo che queste persone hanno riversato su questi ospiti stranieri non si riversi invece su coloro che ne sono all’origine e lo alimentano. Ecco, manca una reazione altrettanto di pancia: non colpevolizzante, non stigmatizzante (non ha senso, non serve, non è utile: se non a far sentire ‘buoni’ gli altri, e non è detto che lo siano), ma semplicemente educativa, migliorativa del nostro vivere che chiamiamo civile. E ci manca terribilmente un criterio etico per giudicare tutto questo. E lasciarcelo finalmente alle spalle. Anche perché la semina (sotto)culturale, su questi temi, per molti anni, è stata spesso a supporto delle opinioni della signora in questione: e molti ne portano la responsabilità, negli ambiti più disparati. Ma dobbiamo avere il coraggio di dircelo, guardandoci coraggiosamente allo specchio: “il mondo al contrario” contro cui si schierava recentemente un generale trionfalmente eletto alle elezioni europee con una valanga di preferenze, segno della popolarità dei contenuti che veicola, è in realtà questo. Di chi esprime questi contenuti. Non di chi è costretto a subirli.

 

Il vero mondo al contrario, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 luglio 2024, editoriale, p.1

Caporalato: le tutele negate (su base etnica)

Non c’è solo Satnam Singh: il bracciante irregolare morto dopo aver perduto un braccio in un incidente sul lavoro, in un’azienda di Latina, perché il suo datore di lavoro l’ha abbandonato a casa, il braccio in una cassetta della frutta, senza chiamare i soccorsi. La sua storia è più clamorosa di altre per l’esito letale, e per la disumanità non solo dell’atto, ma delle giustificazioni cercate da un padrone (questa la parola corretta) recidivo nello sfruttamento di manodopera irregolare. Tuttavia vi sono casi simili anche altrove: non una regola, per fortuna, ma nemmeno un’eccezione così rara. Con maggiore frequenza nel centro-sud, dove ci sono realtà rurali in cui il sistema arcaico di questo tipo di bracciantato assume aspetti strutturati di sfruttamento para-schiavistico, con intere cittadelle stagionalmente abitate da questa umanità invisibile e non riconosciuta come tale; ma con casi non isolati anche nell’agricoltura spesso più ricca del nord, dal Piemonte al Veneto, dall’Emilia all’Alto Adige.

È un intero sistema di produzione che va messo in questione: e riguarda una filiera lunga, che parte sì dai proprietari dei campi e dagli imprenditori agricoli, ma passando attraverso molti intermediari finisce sui prezzi imposti negli scaffali dalla grande distribuzione, e in definitiva sulle nostre tavole.

Non c’è solo un problema di prevenzione e controllo, largamente insufficienti alla bisogna. A monte c’è una modalità di gestione dei flussi migratori, da tutti gli addetti ai lavori (inclusi gli imprenditori) considerata assurda, fatta di click day non controllati e in parte in mano a forme di criminalità organizzata (non si spiega altrimenti come mai oltre la metà delle domande venga fatta in Campania, che ha solo il 6% delle imprese agricole).

C’è un problema di mani mafiose nell’agroalimentare, che sono in grado di imporre un ordine illegale, con la forza quando necessario, anche perché non di rado coincidono con il datore di lavoro stesso. C’è un problema di mafie etniche dedite all’autosfruttamento delle comunità immigrate: sempre più frequentemente gli intermediari appartengono allo stesso gruppo etnico delle vittime, con l’ambiguità che spesso hanno queste figure per chi non ha altre risorse relazionali e conoscitive (a cominciare da un minimo di padronanza della lingua, delle regole di base del vivere civile e del rispetto dei contratti e delle leggi). Queste figure sono al contempo carnefici e malavitosi, ma anche mediatori e protettori, e come tali considerati e rispettati: quando non svolgono addirittura un ruolo fiduciario di legame con le famiglie allargate rimaste nel paese d’origine. Ma c’è anche un problema culturale più generale che ci riguarda tutti. Perché alla fine ci siamo noi: che non vediamo, o facciamo finta di non vedere, o di non sapere.

Ormai ci stiamo abituando ad accettare che nel mercato del lavoro viga un dualismo esplicito e visibile: tra lavori che prevedono tutele e garanzie, e quelli in cui non importa; tra lavori in regola e lavori irregolari, in nero o in grigio; tra lavori in cui si rispettano dei minimi sindacali e salariali, e interi settori dove non si rispettano più; tra lavori svolti da autoctoni e da immigrati, anche – settori in cui è ragionevole aspettarsi che chi ci lavora abbia il colore della pelle diverso dal nostro, e quindi sia normale sia pagato di meno e trattato peggio. Dove il problema sta tutto in quel ‘quindi’. E noi di questo siamo al corrente: e cominciamo a considerarlo accettabile, o comunque pensiamo di non poterci far niente. Per dire: i lavori stagionali in agricoltura sono sempre esistiti. Ma anche ai tempi delle mondine, e in altre forme di raccolta, per quanto precario, un tetto ai lavoratori lo si dava: come è possibile oggi pensare che sia normale che un datore di lavoro possa assumere decine o centinaia di stagionali stranieri, senza avere alcun obbligo rispetto all’alloggio, visto che è ovvio che non hanno una casa? Dove e su chi si scaricherà il problema?

Tutto questo non è nuovo in assoluto: le classi e sottoclassi non sono un’invenzione dell’oggi. Solo che quando a questa differenza si sovrappone anche la diversità etnica (o razziale, come la chiama qualcuno), questo meccanismo si potenzia, e finisce per rendere più larga la frattura tra chi è dentro e chi è fuori il sistema delle tutele, e più ambiguo il nostro ruolo.

 

Caporalato: chi lavora tutelato e chi no, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 luglio 2024, editoriale, pp. 1-5

Veneto 2040. Inesorabile demografia: pochi o plurali

Il numero è 380mila. Se si preferisce, l’8%. È la quantità di popolazione veneta che sparirà da qui al 2040. Ancora di più, 440mila, sono invece gli occupati che non saranno sostituiti da nuovi lavoratori, semplicemente perché quei nuovi lavoratori non saranno nemmeno nati, e quindi non copriranno il numero di persone andate nel frattempo in pensione. Il tutto, solo per mantenere stabile la base occupazionale, senza neanche immaginare una sua crescita. Un numero enorme, che Fondazione Nordest fa bene a metterci sotto il naso in tutta la sua asciutta ma esplicita drammaticità. E che è stupefacente non produca dibattito politico e decisione pubblica: perché è la questione più importante, insieme a tutte quelle correlate con l’evoluzione tecnologica e l’intelligenza artificiale, con cui dovremo confrontarci da qui ad allora. Niente è più pervasivo, e ha effetto in più ambiti, della demografia: non solo lavoro, ma scuola, sanità, urbanistica, università, servizi, consumi, welfare, previdenza, cultura, religione, e qualunque altra cosa possa venirvi in mente.

Se non si riflette su questi dati, niente si può programmare. E se pensate che il 2040 sia lontano, vi sbagliate di grosso. C’è appena il tempo necessario per prepararsi. Non solo perché quanto accadrà allora, in termini di previsioni demografiche, è già prevedibile oggi con inesorabile precisione. Ma perché le previsioni sul domani sono in grado di determinare e modificare le scelte di oggi di molti soggetti, aggravando il problema. Quanti giovani, ad esempio, conoscendo questi dati (e li conoscono più di quanto crediamo, o li intuiscono, perché li sperimentano già oggi osservando il poco attrattivo paesaggio economico e sociale che li circonda, e vedendo le differenze quando viaggiano all’estero: e viaggiano…), decideranno di andarsene già prima di entrare nel mondo del lavoro, magari approfittando di un Erasmus, o decidendo di frequentare l’università direttamente altrove?

Certo, ci sarà più spazio, anche contrattuale, per i giovani che entrano nel mercato del lavoro. Certo, potranno entrarci più donne perché finalmente avranno flessibilità oggi inesistenti, che consentiranno di conciliare famiglia e lavoro (che è un problema che dovrebbero sentire anche gli uomini): la società, i datori di lavoro, saranno costretti a adeguarsi. Certo, si potrà eventualmente lavorare più a lungo (magari in forme diverse dal passato), visto che viviamo di più e più in salute di prima. Ma chi si illude che questo basti, e consenta di eludere l’ineludibile, si sbaglia di grosso: occorreranno anche immigrati. Prova ne sia che anche i paesi con pochi NEET (giovani che non lavorano né studiano) e una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, hanno bisogno anche di manodopera – e di popolazione – immigrata. Ecco perché, correlata alle proiezioni demografiche, c’è la questione della gestione dei flussi migratori: che non si potrà limitare al numero di lavoratori necessari, dato che anche loro, come tutti, tendono a costruire relazioni e a mettere su famiglia (anche gli immigrati hanno desideri, progetti, e si innamorano persino). Ce ne saranno molti di più, e ne desidereremo molti di più. La società è destinata a cambiare radicalmente, a pluralizzarsi, a normalizzare ciò che oggi viene considerato eccezionale, a fisiologizzare ciò che molti ancora considerano patologia. La competizione, presto, sarà su come attrarli, gli immigrati, oltre che su come trattenere i nostri giovani. E dovremo fare concorrenza a altre regioni (per motivi diversi, sia la Lombardia che l’Emilia-Romagna), già ora meglio attrezzate di noi. Mentre la politica (ma anche la cultura diffusa) è ancora impegnata nella battaglia di retroguardia di respingerli, gli immigrati, senza sapere come né perché. Certo, bisognerà studiare, confrontare, organizzarsi: non si può pensare che i processi accadano e basta. Bisognerà favorire i processi di integrazione come non si è fatto fino ad ora, e spendere per farlo bene, come del resto si spende in istruzione per vivere in un paese civile. Come sempre, come per ogni cosa, è questione di governo, cioè di prendere decisioni: se non si fa, si crea disordine; se lo si fa, si produce un ordine decentemente soddisfacente per tutti. L’alternativa, a non fare nulla, è un orizzonte cui rischiamo di doverci abituare: quello di una maggiore povertà, di una crescente solitudine, di una minore dinamicità che spingerà verso il basso i nostri indici di vivibilità. Niente che ci convenga, in ogni caso.

 

Leggete questi numeri, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 giugno 2024, editoriale, pp. 1-7

Fleximan, un eroe improbabile

Fleximan è il nome improbabile – che fa pensare più a un idraulico o a un contorsionista da circo di periferia, che a un difensore del popolo, a un Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri – che è stato dato a chi (forse più di una sola persona) ha fatto saltare un po’ di autovelox in giro per il Veneto, diventando in breve una specie di amato vendicatore popolare, una leggenda minore del Nordest. Ora che si è capito chi incarna davvero questa figura (almeno per alcuni dei danneggiamenti avvenuti), si può fare qualche considerazione in più. Sul soggetto in questione, e sulle emozioni che oggi lo circondano.

Normale che possa fare simpatia. Perché è vero che gli autovelox vengono installati allo scopo fondamentale di fare cassa. È vero pure che talvolta vengono programmati a tavolino, in anticipo, gli obiettivi economici che la polizia locale deve raggiungere in termini di raccolta fondi attraverso le multe. È vero anche che spesso, proprio per questo, vengono installati sulle strade di maggiore percorrenza per gli automobilisti in transito: in modo da colpire, in proporzione, più le persone che non abitano nel territorio che incassa il balzello (anche se non è sempre così: il caso di Cadoneghe, dove pure sono stati fatti saltare gli autovelox, insegna), e non pagare quindi il prezzo elettorale della vessazione. Tutto vero, condannabile e ingiusto: anche perché le multe non sono un’imposta progressiva – ed essendo uguali per tutti, è al più povero, al meno abbiente, che fanno percentualmente più danno. Ma è anche vero che gli autovelox stessi, come forma di dissuasione, hanno o dovrebbero avere una funzione precipua differente: tutelare la salute e le vite umane, da chi guida sulle strade senza regole e a velocità eccessiva, nelle ore diurne e peggio ancora in quelle notturne, provocando una lunga teorie di sofferenze, di vittime della strada (che è anche scorretto definire così: sono vittime di automobilisti indisciplinati e irresponsabili – la strada è innocente…), di famiglie rovinate, di tragedie umane. E semmai ci sarebbe da ragionare seriamente su quella specie di culto un po’ provinciale e vetusto, da boom economico, dell’automobile come veicolo di libertà e sua manifestazione, possibilmente senza regole, che sia il limite di velocità o di tasso alcolemico, che ancora è così presente in certo Veneto profondo, incapace di uscire da questa in fondo primitiva e persino banale ostentazione del proprio ego.

Fleximan quindi (o, come si legge in molte pagine sui social, Fleximen, al plurale: manco scriverlo in inglese corretto…) non è un eroe. E se lo è, appartiene a quella vena un po’ picaresca, vagamente anarchica, che alberga nell’animo popolare veneto, spesso con venature di estrema destra più antropologiche che veramente ideologiche (anche se queste non mancano: il nostro è stato segretario di Forza Nuova e ama usare la parola ariano con manifesta convinzione…). Persino certe istanze autonomistiche sono declinate, in fondo, in questo modo: facciamo da noi, facciamoci giustizia – anche – da noi, a modo nostro. E forse c’è un filo rosso (o nero) che lega le imprese del Tanko, il mugugno senza capacità costruttiva contro l’autorità quale che sia (inclusa quella che sarebbe l’incarnazione della vicinanza al territorio, come l’ente locale), benissimo impersonato dal Pojana, il personaggio del piccolo imprenditore veneto sempre in polemica col mondo inventato dal comico Andrea Pennacchi, e appunto Fleximan, il supereroe in saòr, che produce anche qualche effetto emulativo.

Non stupisce quindi, ma un po’ amareggia, e un po’ anche addolora, che sia diventato in poche ore un simbolo, un idolo quasi, con i suoi supporter acritici e i suoi fan più sfegatati, una sorta di capopopolo provinciale – che non ha né la tragicità di un Masaniello né la dignità e l’arguzia di un Rugantino – da sostenere nella sua lotta contro lo stato (che poi siano i comuni, all’occhio superficiale non fa differenza), a cui si vogliono pagare le spese legali lanciando collette, e che molti invocano fin d’ora come candidato alle elezioni. Peccato che abbia perso l’occasione delle europee, dato che le liste sono già chiuse, e il posto di spicco del protestatarismo guascone, da uno contro tutti, gli sia stato soffiato da altri personaggi in qualche modo simili, magari con la divisa e le stellette – mentre ieri erano gli agitatori no vax e domani chissà. Avanti il prossimo…

 

Tutto fuorché un eroe, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 19 maggio 2024, editoriale, pp. 1-6

Primo maggio: ha ancora senso festeggiarlo?

Ha ancora senso festeggiare il Primo Maggio? Forse no. Forse non come lo si fa ora. Forse dovrebbe diventare una riflessione su come si sta trasformando il lavoro, e quale senso avrà, e quanto sarà diverso da quello che siamo abituati a pensare che abbia. Perché il tema è lì, ed è decisivo.

Non è tanto questione di data. Manteniamola pure, rispettando le tradizioni, anche se non molti, oggi, ne conoscono le ragioni. L’origine rimanda alla lotta di un gruppo di lavoratori statunitensi a Chicago per ottenere la giornata lavorativa di otto ore, e le proteste, gli attentati, la repressione e i morti che ne sono seguiti. Curiosamente, non è adottata come tale negli USA, i diretti interessati, dove il “Labor Day” si festeggia il primo lunedì di settembre. È invece stata adottata dal movimento operaio e socialista di tutto il mondo, e quindi viene festeggiato con più ostentazione nei paesi che socialisti si dicono ancora, come la Russia e la Cina (non proprio i paesi dove è ideale vivere e lavorare): anche se è festa pure nella maggior parte dei paesi d’Europa, dove però è diventato, appunto, un (benemerito, naturalmente) giorno festivo in più sul calendario.

La modalità invece ci dice qualcosa. Ho fatto in tempo a vivere e partecipare alle ultime grandi manifestazioni degli anni Ottanta (lavoravo, allora, al sindacato): quando il Primo Maggio non solo si bloccava tutto, ma i lavoratori (dipendenti, almeno), spesso con le famiglie, partecipavano davvero ai cortei, e ci tenevano, invece che approfittarne per una gita fuori porta (dove, invece, nel settore ampio della ricezione, lavorano tutti in turni rafforzati). Certo, la retorica era spesso insopportabile, i discorsi dei leader di CGIL-CISL-UIL e delle altre più o meno autorevoli autorità di contorno (dai sindaci all’ANPI o qualche altra sigla più o meno collegata al tema) monotoni, ripetitivi e di lunghezza oggi – ai tempi dei social – impensabile, anche per il militante meglio disposto. Ma, appunto, si respirava ancora aria di festa, e almeno si sapeva perché si era lì: c’era un clima che si poteva ancora condividere, e spesso messaggi da diffondere. Oggi? Dal 1990, ciò che era manifestazione popolare nazionale è stata trasformata in concertone. Tatticamente, una trovata abile: c’è una presenza cospicua, si coinvolgono moltissimi giovani (che ai cortei tendevano a sparire), e immagino si sia trovato il modo di caricare almeno parte delle spese sulle spalle della RAI, che lo trasmette in diretta. Soprattutto, ci si illude di contare qualcosa, perché gente, dopo tutto, ce n’è. Strategicamente, ormai ci si è già accorti che è una iniziativa a perdere. Perché le persone sono lì per tutt’altri motivi, e nonostante gli encomiabili ma anche un po’ cosmetici sforzi di inventarsi ogni anno un tema e una parola d’ordine, e qualche minuto di contenuti parlati nella disattenzione generale, magari con il contorno di qualche strumentalizzazione legata all’attualità politica del momento, alla fine ci si va solo (o lo si guarda in TV) perché c’è la musica e perché è gratis.

Questa parabola è fortemente simbolica, e ci dice molto sulle trasformazioni del lavoro. E, magari, dovrebbe richiamare più attenzione: anche e soprattutto da parte di chi, come i sindacati, svolge un lavoro di tutela di cui c’è ancora enorme bisogno, anche se in forme sempre più differenziate. Da un lato ci avviamo a un dualismo di fatto, a una polarizzazione progressiva: a seguito della quale per alcuni il lavoro è sempre più denso di significato e strumento di valorizzazione di sé e della propria creatività (sono quelli, sempre più individui e sempre meno collettività, che del primo maggio hanno meno bisogno, perché in più il loro lavoro è spesso decentemente redditizio); mentre per altri è solo uno strumento necessario e inaggirabile per percepire un reddito, sempre meno adeguato ai costi e ai bisogni, e sempre meno valorizzante per chi il lavoro lo svolge. Dall’altro il legame tra lavoro e reddito sarà sempre più indiretto: dall’alto, per così dire, perché chi può, perché ne ha i mezzi (i ricchi sempre più ricchi in un paesaggio di diseguaglianze crescenti), si è già liberato da solo dal lavoro, e non fa nulla per nasconderlo; dal basso perché si stanno diffondendo forme di reddito universale e di sostegno a prescindere dal lavoro svolto. Al punto da rendere obsoleto l’articolo 1 della nostra Costituzione, e dunque il fondamento su cui poggia. Che “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro” ha ancora molto senso nella sua prima parte, molto meno nella seconda, anche se continuiamo a crogiolarci nella retorica della Costituzione più bella del mondo.

Ecco, forse è questa la svolta su cui vale la pena riflettere, se vogliamo dare ancora un senso al giorno del lavoro: e farne occasione di riflessione sull’ingiustizia e di ripensamento della società.

 

Il vero senso della festa in un mondo del lavoro che sta cambiando, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 maggio 2024 pp. 1-4

“Prima gli italiani”, “prima i veneti”, “prima noi”: cosa c’è mai di sbagliato?

Sappiamo che è difficile non condividere tutte le leggi “prima noi”: ci sembrano intuitive. Prima noi per le case popolari, le borse di studio, i posti in istituto per anziani e disabili, gli asili nido e qualunque altra graduatoria. Prima chi vive sul territorio, ci paga le tasse e ci ha messo radici. Sembra evidente: ecco perché questi ragionamenti sono così popolari. Sappiamo anche la questione è più simbolica che sostanziale: in fondo ci sono altri criteri che giocano (dal livello di reddito al numero di figli alla presenza di anziani), e quindi la discriminazione (positiva, nei confronti dei residenti da più tempo, o negativa, nei confronti dei neo-arrivati), potrebbe non incidere più di tanto. Ma allora perché insistere? E cos’è che non va nell’impostazione del ragionamento?

Un utile modo di vedere le cose è rovesciare la prospettiva. Immaginiamo di andare noi altrove: a lavorare in un’altra città o regione – magari perché chiamati da un datore di lavoro (che può essere anche pubblico: che cerca un medico, un insegnante, un carabiniere, un giudice…), o perché vogliamo aprire un’attività, o semplicemente perché ci innamoriamo di un posto – e pronti a contribuire al benessere proprio di quella regione pagando le tasse lì: come ci sentiremmo se ci dicessero che non possiamo accedere ai relativi servizi? Lo considereremmo “giusto”? E per vedere se oltre che giusto è anche sensato: come considereremmo un regolamento di condominio in cui si dicesse che non possono utilizzare l’ascensore, o devono mettersi in coda dopo gli altri, quelli arrivati per ultimi?

Parliamo di servizi fondamentali: casa popolare, asilo nido per i figli. Si chiede di essere residenti da un po’ di anni: ma spesso, quasi sempre, è proprio “all’inizio” (di una convivenza, di un matrimonio, di un’attività) che si ha più bisogno di supporto. Ha senso negarla, che so, a una giovane coppia, italiana o straniera che sia, semplicemente perché arrivata dalla provincia accanto, che sta in un’altra regione? Aggiungiamo che si tratta di un disincentivo a venirci, in una regione: perché mai, a parità di salario, di fronte a condizioni diversificate e di fatto discriminatorie per i neo-arrivati, una persona dotata di senno dovrebbe scegliere la regione che gli rende la vita più difficile? Che gli manda un segnale neanche tanto implicito di rifiuto? Che gli dice che è un cittadino di serie B? Ed è di questo di cui abbiamo bisogno, in una situazione di drammatico calo demografico e di gravissima difficoltà a reperire manodopera? Ci facciamo del male o del bene facendo così? Ricordiamo che già all’approvazione delle primissime leggi “prima i veneti” i primi a protestare non furono gli immigrati, ma gli agenti di polizia provenienti da altre regioni che vengono a fare un lavoro di cui i veneti hanno bisogno ma non vogliono più fare (o comunque non ce ne sono abbastanza): è questo il nostro benvenuto?

Qualcuno, per giustificare queste norme, parla di meritocrazia. Ma il merito non c’entra niente: qualcuno ha “meritato” di essere nato casualmente in una regione o in un’altra? Semmai c’entra il diritto e il bisogno. E con queste leggi si manda un messaggio di questo genere: “tu hai meno bisogno, ma siccome sei nato qui, per il solo fatto di essere nato qui – non perché sei migliore – hai più diritti di altri”. L’opposto esatto della meritocrazia.

Ma il problema vero per cui queste leggi si pensano e si approvano è simbolico, dunque politico. Consente di creare barriere, di far passare il messaggio che qualcuno ci guadagna a scapito di altri, di creare in maniera neanche tanto sottile una distinzione, dunque un capro espiatorio: non a caso si pensa immediatamente agli immigrati, e in particolare a quelli extra-europei. Per cui se non ci sono abbastanza case popolari non è perché da decenni le politiche pubbliche hanno smesso di occuparsi di questo problema, ma perché ci sarebbero “troppe” domande in qualche modo illecite o ingiustificate. E si fa una bella guerra tra poveri che in più consente a chi la promuove di lucrarne il consenso relativo: proprio perché il ragionamento, come dicevamo all’inizio, sembra intuitivo.

Purtroppo, così facendo, ci facciamo solo del male, soffiando sul fuoco dei conflitti anziché spegnerli. Anche perché è semplicemente antistorico: la vita di ciascuno di noi è sempre più mobile, i nostri figli si spostano sempre di più e sempre più lontano, anche solo la tendenza all’urbanizzazione è inesorabile (nel 1950 viveva nelle città un terzo della popolazione mondiale, nel 2050 sarà più di due terzi, al 2100 il pianeta sarà quasi interamente urbanizzato): veramente possiamo immaginare che una persona nata sul Garda sia trattata diversamente a seconda se va a vivere a Brescia o a Verona? Ma già, certo, le prossime elezioni saranno assai prima…

I diritti, i primi e gli ultimi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 25 aprile 2024, editoriale, pp. 1-5

 

Parlare delle conseguenze e non delle cause. Perché il Patto sull’Asilo farà del male a molti, ma non servirà a nulla

Il Patto Europeo sulle Migrazioni e l’Asilo non è un compromesso: che sarebbe comprensibile, essendoci in Europa posizioni diverse. È una non scelta, che serve essenzialmente agli uni e agli altri per potersi presentare alle elezioni europee dicendo che si è fatto qualcosa. Solo che non è questa la cura di cui abbiamo bisogno: è un po’ come somministrare a un malato un po’ di farmaci per curare un blando raffreddore, e un po’ contro un invasivo tumore ai polmoni, quando in realtà la malattia in questione è un disturbo al fegato.

I veri nodi non si sono voluti toccare: a partire da quei regolamenti di Dublino – che prevedono che del richiedente asilo si faccia carico il paese di primo approdo – sottoscritti all’epoca, per l’Italia, da un governo di centrodestra, e rinnovati da uno di centrosinistra, tanto per chiarire che nessuno è vergine in materia. Oggi, anzi, con il nuovo patto, il ruolo dei paesi frontalieri, come l’Italia, è addirittura rafforzato.

L’opzione dovrebbe essere una e una sola: poiché i migranti – ovunque arrivino, via mare o via terra, attraverso il Mediterraneo o i Balcani – cercano di entrare in Europa, e raramente vogliono fermarsi nel paese che casualmente si trova alle frontiere esterne dell’Unione, la questione dovrebbe essere gestita centralmente dall’Unione stessa – accogliendo, redistribuendo, integrando, se del caso respingendo. Parliamo di un’Europa che, per capirci, ha un fabbisogno annuo stimato di manodopera – dovuto al differenziale tra pensionamenti e ingressi di giovani nel mercato del lavoro, e alla crescente voragine tra i due – di circa 2,5 milioni di lavoratori (che significa non meno di 50 milioni di persone da qui al 2050). E quindi avrebbe interesse a gestire dei flussi regolari da essa coordinati e promossi, con linee di indirizzo cogenti. Questo invece non lo si fa, lasciando quindi aperto un sostanzialmente unico canale di ingresso, che è quello irregolare. Con l’unica possibilità (le due cose sono strettamente collegate) della richiesta d’asilo: le cui procedure, con il nuovo patto, diventano più veloci ma anche più sommarie e discutibili, e basate sul paese di provenienza più che sulla situazione della singola persona. Di fatto, per accontentare paesi e partiti anti-immigrati (che si lamentano del mancato ruolo dell’Europa, ma rifiutano di darle le competenze in materia, tenendole strettamente nelle mani degli stati nazionali), si incentiva l’esternalizzazione delle frontiere – e quella che potremmo chiamare la frontierizzazione delle migrazioni – anche in dispregio di alcuni diritti umani fondamentali.

Sarà anche vero che l’obiettivo è di arginare le pulsioni xenofobe dell’estrema destra, e si capisce il motivo: anche perché, per evitare di vedersi erodere consenso, le forze moderate e popolari (ma anche quelle progressiste) finiscono per spostarsi progressivamente su posizioni sempre più anti-immigrati, anziché rovesciare la prospettiva e proporre un quadro interpretativo diverso. Evitando di affrontare il nodo dei flussi regolari di ingresso, però (che è quello fondamentale: è la loro mancanza, di fatto, che produce gli arrivi irregolari – la cui regolamentazione dovrebbe quindi, logicamente, venire dopo) si consegna l’egemonia culturale (interpretativa, e dunque politica) proprio a queste destre.

Non ci stanchiamo di ripeterlo (o forse un po’ sì: la sensazione è di dover sempre ricominciare dall’abc): finché non si (ri-)apriranno canali regolari di ingresso per quelli che chiamiamo migranti economici, avremo solo canali irregolari di ingresso per presunti richiedenti asilo. Spesso fasulli, è vero: ma è precisamente la nostra normativa, o la sua mancanza, che trasforma gli uni negli altri, aumentando a dismisura il numero di questi ultimi, con un effetto controdeduttivo. Ma su questo il patto non dice praticamente parola. E occupandosi solo di come gestire (malamente) i richiedenti asilo dà una risposta irrazionale e costosa a un problema che ha altre origini.

Le migrazioni, sempre più frequenti, in ingresso e in uscita sono diventate fisiologia della società, non sua patologia. Dovremmo considerarle come i trasporti, l’istruzione, la sanità, lo sviluppo economico: se non le governi, ovviamente, è un caos. Se le governi, invece, come doveroso fare, quello che a molti suona come un problema diventa un pezzo della soluzione al problema stesso. Ma è precisamente quello che non si vuole fare: per continuare a sfruttare il dividendo politico della logica del capro espiatorio, della xenofobia e della guerra tra poveri, da un lato dello spettro politico; e per ignavia, e incapacità di pensare diversamente, dall’altro.

 

L’Europa non decide sui migranti. Il patto spacca l’UE che rinuncia a gestire i flussi regolari, in “il Riformista”, apertura, p. 1

Minori stranieri a scuola. Qualche domanda al ministro Valditara

Il ministro Valditara ama discettare sui social delle proprie opinioni sugli immigrati e la scuola. Nell’ultimo tweet (o post su X, come lo si vuol chiamare) se ne è venuto fuori con una frase sul tema di sei righe senza un punto, dalla consecutio opinabile e la sintassi zoppicante, seppellita per questo da una valanga di ironie. In essa da un lato ribadisce l’ovvio: che nella scuola si debba insegnare storia, arte, letteratura e musica italiana – speriamo contestualizzate in quella mondiale, tanto per sprovincializzarci un po’. E dall’altro decreta, per fortuna non ancora per decreto, che nelle classi debba esserci una maggioranza di italiani. L’affermazione è di apparente buonsenso: e, peraltro, nella stragrande maggioranza dei casi è già così. Una volta tradotta in pratica burocratica diventa tuttavia un nonsenso. Vediamo perché.

La quantità di italiani presenti in una classe o in una scuola dipende dalla definizione che si dà di italiano. In molti paesi, chi ci nasce è cittadino di quel paese. A seconda di come cambia la legge sulla cittadinanza, cambia il numero di cittadini. Nei paesi con lo ius soli lo sono tutti. In Germania, per esempio, le maglie sono sempre più larghe anche per quel che riguarda la cittadinanza: in passato ci volevano almeno dieci anni per ottenerla, con la legge in vigore ne bastano cinque, e si sta discutendo se portarla a tre – il che significa che tutti i figli di stranieri nati in Germania, fin dall’ingresso in prima elementare sono già cittadini. L’Italia ha una delle leggi sulla cittadinanza più restrittive d’Europa (tranne per i discendenti di italiani all’estero, che anche se i loro antenati sono emigrati a fine Ottocento, possono ottenere la cittadinanza – di solito richiesta non per venire in Italia, ma per avere la libera circolazione in Europa e entrare negli USA senza visto – senza alcun obbligo di conoscenza della lingua): forse il problema, che è più di definizione che sostantivo, sta lì.

Un altro esempio. I figli di coppie miste – sempre più frequenti: oggi sono oltre il 15% su media nazionale, molti di più nelle regioni e città con più immigrati – hanno la cittadinanza per matrimonio. Ma se portano il cognome del coniuge straniero sono percepiti come stranieri, altrimenti no. Quando si dice che in una classe ci sono “troppi” stranieri, di fatto si contano anche loro. E anche i figli adottati di colore diverso da quello maggioritario nella etnia italiana – come direbbe il generale Vannacci, che ignora che tale etnia non esiste – non sono, ma sono percepiti, come stranieri.

Il problema più serio tuttavia è un altro. In città come New York, Londra, Sidney e Toronto, non proprio tra i luoghi più arretrati del globo, quasi la metà dei residenti (con percentuali in crescita: quindi tra poco saranno più della metà) è nata all’estero, e in molti quartieri e scuole sono naturalmente molti di più, anche perché, come in Italia, gli stranieri fanno più figli degli autoctoni: se adottassero il criterio immaginato da Valditara, dovrebbero deportare gli alunni altrove. E qui emerge il punto politico più rilevante, che è proprio quello della gestione di tale percentuale. Intanto, si applica a una scuola o alle sue singole classi, che sarebbe un modo per fare finta di rispettare un criterio violandolo nella sostanza? Ma soprattutto: se la percentuale viene superata che si fa: si deportano i figli di immigrati? E quanto lontano? E a spese di chi? E si darebbe quindi ai loro compagni autoctoni rimasti l’idea che sono privilegiati e superiori perché loro non corrono questo rischio? Non rimanda, tutto ciò, a un immaginario che rievochiamo nella giornata della memoria proprio per sperare che non accada più?

Aggiungo che lavoro in un’istituzione, l’università, la cui qualità è misurata da classifiche globali in cui il livello di internazionalizzazione (numero di studenti e di docenti stranieri) è uno dei fattori qualitativi e di attrazione rilevanti e valutati positivamente. Ora, lo diciamo sommessamente, ma se è vero per l’università, siamo proprio sicuri che non lo sia anche per la scuola dell’obbligo? E che il problema allora non sia il numero, ma il contenuto dei programmi, la formazione degli insegnanti e le risorse a disposizione?

Lo chiediamo a Valditara, consapevoli del suo precedente ruolo di professore ordinario di diritto romano: un impero che dava cittadinanza e pari diritti ai sudditi delle terre che conquistava – e per un lungo periodo persino a tutti gli schiavi liberati –, e ha contato diversi imperatori nati in suolo oggi straniero, seppure “italiani – meglio, italici – nati all’estero”. Tra questi Settimio Severo, nato in Libia e di pelle più scura della media, per così dire. Certo, in gran parte erano di fatto di cultura latina, non di rado anche di nobili famiglie romane. Ma se valesse il criterio geografico odierno, sarebbero “tecnicamente” italiani in molto pochi: solo 43 imperatori (nella sola Turchia ne sono nati 69, quasi una novantina se consideriamo l’intero Medio Oriente e il Nord Africa). Per dire, Costantino, serbo di nascita, figlio di un illirico e di una greca, sarà colui che cristianizzerà l’impero. Il che offre un qualche motivo di riflessione a chi alle radici cristiane ama richiamarsi…

 

Costantino e le classi “italiane”, in “Corriere della sera – Corriere del Trentino” e “Corriere dell’Alto Adige”, 31 marzo, editoriale, p. 1

Dove inciampa il ministro, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 2 aprile 2024, editoriale, pp. 1-3