Turismo, prezzi, balneari. La pazza estate italiana
Ci mancava giusto l’Economist. Che, in un articolo pubblicato questa settimana, stigmatizza giustamente la situazione delle spiagge italiane: in particolare lo scandalo dei balneari, e delle concessioni di fatto monopolistiche, eternamente prorogate senza mai introdurre una parvenza di concorrenza che possa spingere per migliorare il modello di business e l’offerta, e magari far scendere i prezzi – e soprattutto senza mai aumentare gli introiti per lo stato di concessioni mai aggiornate e spesso francamente ridicole. Per dire, uno degli stabilimenti più noti, per questioni di gossip politico, il Twiga di Briatore, a fronte di 6 milioni di fatturato paga allo stato solo 17mila euro di concessioni (ne ha dati di più, 26mila, al partito di cui è esponente una delle socie del titolare, che è anche ministro del turismo): e va a suo onore di sostenere che dovrebbe pagare molto di più. La protezione della lobby dei balneari, evidentemente molto potente, non risulta incomprensibile solo alla rivista che rappresenta la Bibbia del capitalismo globale: probabilmente anche il cittadino comune, potesse – che so – votare a un referendum in materia, sarebbe, visto che avrebbe tutto da guadagnarci, per la messa all’asta delle concessioni (il cui introito ammonta, per circa 12mila stabilimenti, secondo la stima della rivista, a circa 100 milioni di dollari in totale, che fa la risibile media di poco più di 8mila dollari ciascuno: all’anno – di affitto – per un bene di proprietà di noi tutti).
Non sono tuttavia solo i balneari il problema del turismo in Italia. L’estate è stata dominata dalla concorrenza presente e futura dell’Albania, in termini di qualità e prezzi: che è solo il newcomer dei concorrenti potenziali e reali. Ma c’è anche altro. Di recente un blogger e scrittore di viaggi australiano (che al turismo nel nostro paese ha anche dedicato un libro), intitolava una sua riflessione in questo modo: “Overcrowded, overpriced and badly managed: Why I’m done with Italy”. Traduciamo così: “Sovraffollata, ipercara e mal gestita: Perché ho chiuso con l’Italia” – per un po’, aggiungeva nel pezzo, e pur amandola. Ecco, se fossi un operatore turistico italiano mi confronterei con questi titoli, anziché lamentarmi delle esose richieste dei miei dipendenti, o della difficoltà di trovare manodopera per colpa del reddito di cittadinanza (le colpe stanno altrove). Per carità, non è un testo sacro, ma solo l’articolo di un adepto importante – anzi, un esponente del clero – della chiesa del turismo globale: ma è comunque un influencer, e qualche cosa conta, dato che prefigura un futuro che è già ampiamente leggibile nel presente. Quello di un turismo a due velocità, o se si vuole segregato per popolazioni: quello di alta gamma, che offre opportunità di pregio ma per pochi, e quello popolare che sta travolgendo le nostre città d’arte, ma anche molte località di mare e di montagna. Quello di un turismo di massa sfruttato senza freni e senza controlli, ma soprattutto senza governo. È questa infatti la parte che sottolineerei maggiormente. Molti luoghi del mondo sono “overpriced”: ma si sa, sono a disposizione dei pochi che possono permetterselo, e a loro va benissimo così. Molti sono anche “overcrowded”: il turismo di massa è una specie di male inevitabile, figlio della globalizzazione, dell’arricchimento del mondo, della democratizzazione dell’esperienza del viaggio – oggi alla portata di centinaia di milioni di tasche in più rispetto al passato. Ma che il fenomeno sia “badly managed” invece non è un destino: è il frutto di una lunga serie di non scelte, e anche di impreparazione e incapacità che non si ha il coraggio di ammettere. Che fa sì che l’Italia, per gli italiani stessi, sia una destinazione sempre meno appetibile. Perché oggi il turismo, che deve giocare sul doppio registro della qualità offerta e della quantità sostenibile, sempre più presuppone un governo, la presa di decisioni, basate su strategie, dunque su obiettivi, e anche valori di riferimento, non solo immagini da promuovere.
Alcuni problemi sono quelli dell’intero nostro sistema produttivo: aziende troppo piccole (più piccole che in Spagna, nostro concorrente di successo, nel settore alberghiero), troppo spesso a conduzione familiare (che, a differenza di quanto si immagina in Italia, non è necessariamente garanzia di miglior servizio), con livelli di istruzione del management e del personale più bassi che altrove. Aggiungiamoci la scarsa conoscenza delle lingue, e la tradizionale modesta capacità di indirizzo, a livello centrale e territoriale. Troveremo ampie ragioni per riflettere su un settore che è sì fondamentale, e con un’offerta unica nel panorama mondiale. Ma a proposito del quale è più utile ragionare sui limiti, per migliorarsi, anziché riposare sugli allori dei successi: presenti, indubbiamente (pensiamo al pur fondato trionfalismo sul Veneto prima regione per turismo in Italia), ma che si relativizzano se paragonati alla crescita dei nostri concorrenti diretti, spesso percentualmente maggiore. Nel lungo termine, ma temiamo anche nel breve, è su questo che si giocherà il futuro del turismo in Italia.
Spiagge, lobby e prezzi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 agosto 2023, editoriale, p. 1