Veneto 2040. Inesorabile demografia: pochi o plurali
Il numero è 380mila. Se si preferisce, l’8%. È la quantità di popolazione veneta che sparirà da qui al 2040. Ancora di più, 440mila, sono invece gli occupati che non saranno sostituiti da nuovi lavoratori, semplicemente perché quei nuovi lavoratori non saranno nemmeno nati, e quindi non copriranno il numero di persone andate nel frattempo in pensione. Il tutto, solo per mantenere stabile la base occupazionale, senza neanche immaginare una sua crescita. Un numero enorme, che Fondazione Nordest fa bene a metterci sotto il naso in tutta la sua asciutta ma esplicita drammaticità. E che è stupefacente non produca dibattito politico e decisione pubblica: perché è la questione più importante, insieme a tutte quelle correlate con l’evoluzione tecnologica e l’intelligenza artificiale, con cui dovremo confrontarci da qui ad allora. Niente è più pervasivo, e ha effetto in più ambiti, della demografia: non solo lavoro, ma scuola, sanità, urbanistica, università, servizi, consumi, welfare, previdenza, cultura, religione, e qualunque altra cosa possa venirvi in mente.
Se non si riflette su questi dati, niente si può programmare. E se pensate che il 2040 sia lontano, vi sbagliate di grosso. C’è appena il tempo necessario per prepararsi. Non solo perché quanto accadrà allora, in termini di previsioni demografiche, è già prevedibile oggi con inesorabile precisione. Ma perché le previsioni sul domani sono in grado di determinare e modificare le scelte di oggi di molti soggetti, aggravando il problema. Quanti giovani, ad esempio, conoscendo questi dati (e li conoscono più di quanto crediamo, o li intuiscono, perché li sperimentano già oggi osservando il poco attrattivo paesaggio economico e sociale che li circonda, e vedendo le differenze quando viaggiano all’estero: e viaggiano…), decideranno di andarsene già prima di entrare nel mondo del lavoro, magari approfittando di un Erasmus, o decidendo di frequentare l’università direttamente altrove?
Certo, ci sarà più spazio, anche contrattuale, per i giovani che entrano nel mercato del lavoro. Certo, potranno entrarci più donne perché finalmente avranno flessibilità oggi inesistenti, che consentiranno di conciliare famiglia e lavoro (che è un problema che dovrebbero sentire anche gli uomini): la società, i datori di lavoro, saranno costretti a adeguarsi. Certo, si potrà eventualmente lavorare più a lungo (magari in forme diverse dal passato), visto che viviamo di più e più in salute di prima. Ma chi si illude che questo basti, e consenta di eludere l’ineludibile, si sbaglia di grosso: occorreranno anche immigrati. Prova ne sia che anche i paesi con pochi NEET (giovani che non lavorano né studiano) e una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, hanno bisogno anche di manodopera – e di popolazione – immigrata. Ecco perché, correlata alle proiezioni demografiche, c’è la questione della gestione dei flussi migratori: che non si potrà limitare al numero di lavoratori necessari, dato che anche loro, come tutti, tendono a costruire relazioni e a mettere su famiglia (anche gli immigrati hanno desideri, progetti, e si innamorano persino). Ce ne saranno molti di più, e ne desidereremo molti di più. La società è destinata a cambiare radicalmente, a pluralizzarsi, a normalizzare ciò che oggi viene considerato eccezionale, a fisiologizzare ciò che molti ancora considerano patologia. La competizione, presto, sarà su come attrarli, gli immigrati, oltre che su come trattenere i nostri giovani. E dovremo fare concorrenza a altre regioni (per motivi diversi, sia la Lombardia che l’Emilia-Romagna), già ora meglio attrezzate di noi. Mentre la politica (ma anche la cultura diffusa) è ancora impegnata nella battaglia di retroguardia di respingerli, gli immigrati, senza sapere come né perché. Certo, bisognerà studiare, confrontare, organizzarsi: non si può pensare che i processi accadano e basta. Bisognerà favorire i processi di integrazione come non si è fatto fino ad ora, e spendere per farlo bene, come del resto si spende in istruzione per vivere in un paese civile. Come sempre, come per ogni cosa, è questione di governo, cioè di prendere decisioni: se non si fa, si crea disordine; se lo si fa, si produce un ordine decentemente soddisfacente per tutti. L’alternativa, a non fare nulla, è un orizzonte cui rischiamo di doverci abituare: quello di una maggiore povertà, di una crescente solitudine, di una minore dinamicità che spingerà verso il basso i nostri indici di vivibilità. Niente che ci convenga, in ogni caso.
Leggete questi numeri, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 giugno 2024, editoriale, pp. 1-7