Israele e Palestina, due pesi e due misure. Troppi silenzi sulle stragi

Lo scorso 7 ottobre una azione terroristica inaudita, pianificata da Hamas, ha portato all’uccisione di 1200 israeliani, tutti civili, tutte vittime innocenti, incolpevoli, inconsapevoli, e al rapimento di 250 ostaggi. Sono passati 300 giorni, da allora. E la risposta israeliana a questo orrendo massacro ha portato fino ad ora all’uccisione di forse 40.000 (quarantamila!) palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili, vittime innocenti, incolpevoli, inconsapevoli, moltissime dei quali bambini. Una strage sproporzionata, una rappresaglia indiscriminata, violentissima. A cui si aggiunge la crisi umanitaria, certificata anche dalle Nazioni Unite – e spesso intenzionalmente indotta – dovuta ai milioni di sfollati, all’impossibilità di offrire cure mediche, alla difficoltà negli approvvigionamenti di cibo, di acqua, di medicinali, di energia elettrica. A cui vanno aggiunti gli abusi di soldati e coloni illegali nei territori palestinesi, e un avventurismo politico senza exit strategy, che sta allargando il conflitto in Cisgiordania, in Yemen, in Iran, in Libano, con atti mirati che superano di gran lunga la gravità dei danni provocati dai razzi lanciati su Israele dai suoi nemici. Tutto questo riguarda anche noi: occidentali, europei, italiani. Per le sue conseguenze pratiche (tra cui il probabile arrivo di migliaia di nuovi profughi palestinesi alle nostre frontiere) e politiche: il sostegno acritico al governo israeliano ci isola di fronte al resto del mondo, tanto è inguardabile, per occhi appena onesti, questa logica dei due pesi e due misure.

Eppure prevale un assordante silenzio. Anche nel Nordest, dove pure ci sono sia alcune tra le comunità ebraiche più importanti, antiche e colte, sia una cospicua presenza immigrata musulmana. Poche manifestazioni, e lasciate in gestione a pochi militanti delle ali estreme dello schieramento politico, che non hanno coinvolto i partiti principali e l’opinione pubblica. E relativamente poche prese di posizione esplicite interne alla stessa comunità ebraica locale: legata per ovvi motivi allo stato di Israele (e giustamente timorosa del fatto che sia in gioco la sua stessa esistenza, cruciale per tutti gli ebrei del mondo), ma che non dovrebbe esserlo al suo governo, che dovrebbe essere legittimo criticare, come fanno peraltro molti ebrei israeliani dall’interno e in situazione assai più difficile. Comunità che ha ricevuto una doverosissima solidarietà dopo il 7 ottobre, mentre quasi nulla ne ha ricevuto la comunità palestinese, pur presente sul territorio, anche con esponenti conosciuti (tra cui imam, ma anche medici, professionisti, imprenditori).

Il confronto viene spontaneo. Quando ci sono stati attentati terroristici in nome dell’islam in Europa (ma anche a proposito dei crimini dello Stato Islamico in Medio Oriente), si chiedeva ai musulmani da noi, che fattualmente non c’entravano niente, che spesso venivano da paesi che non erano quelli coinvolti nel terrorismo, e addirittura a quella nati qui, e quindi europei di nascita e formazione, di dissociarsi da quei fatti orrendi e abnormi. E molti l’hanno fatto spontaneamente, arrivando a “dirsi Charlie” dopo gli attentati perpetrati a Parigi, a Bruxelles e altrove. Forse sarebbe giusto chiedere alle comunità ebraiche di levare una voce critica, che c’è, anche nei confronti del governo israeliano, per i crimini che sta perpetrando. Sarebbe più credibile anche la loro richiesta di sostegno, in questo modo; e più facile per i non ebrei offrirlo (specularmente, anche i musulmani, se fossero maggiormente capaci di critica esplicita nei confronti di Hamas e delle leadership islamiche, sarebbero più credibili e riceverebbero più sostegno – l’onestà intellettuale paga più della partigianeria, su tutti i fronti). Altrove, dagli Stati Uniti a molti paesi europei, gli ebrei per primi, e le pubbliche opinioni, hanno reagito, platealmente. Da noi prevale una certa timidezza, e la difficoltà, della politica in primo luogo, anche solo a indicare nell’attuale governo di Israele (certo non nello stato di Israele o peggio nel popolo israeliano) uno dei maggiori responsabili di questa strage. Perché le vittime sono arabi? Perché sono musulmani (e qui sbagliamo: molti palestinesi non lo sono)? Ecco, forse la semina anti-islamica di questi anni, dai testi di Oriana Fallaci in avanti, ha giocato un ruolo. Ma non basta a spiegare tutto. Forse dobbiamo solo assumere, tutti noi, il banale coraggio di dire quello che pensiamo ad alta voce, poco importa se a qualcuno non piacerà, e se magari è sbagliato. E cominciare a discutere con tutti gli interlocutori. Perché le amicizie sono vere solo quando si è capaci di una discussione franca: se l’amicizia può reggere a un litigio e sopravvivere a una divergenza di opinioni.

Israele e Palestina. Quei silenzi sulle stragi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 2 agosto 2024, editoriale, p. 1-5

Carcere: il modello sbagliato

Quando scoppiano le carceri, a causa del sovraffollamento e delle condizioni di vita dei detenuti, la risposta che viene data in automatico è: più carceri, più agenti. Ma se il problema fosse nel fatto che la risposta è sbagliata perché la domanda è malposta? Anche perché non si tratta di un evento eccezionale, come viene raccontato: succede tutte le estati, occasionalmente anche in altri periodi dell’anno, mentre i suicidi e gli atti di autolesionismo sono una costante, sia tra i detenuti che tra le guardie (che hanno il più alto tasso di suicidi e di burnout tra tutte le forze di polizia). Il che dovrebbe farci riflettere sulla bontà del modello, che invece viene reiterato senza riflessione alcuna dalla politica: il rimedio a ogni problema sociale è sempre l’inasprimento delle pene e l’invenzione di nuovi reati, più galera (“buttando via la chiave”, come amano dire molti), più repressione. E se questo producesse il male anziché diminuirlo? O si limitasse a nasconderlo inutilmente sotto il tappeto?

A cosa servono davvero le prigioni? In origine erano case di lavoro, di cui si supponeva una funzione educativa, o quanto meno socialmente utile, correttiva (non a caso si chiamavano anche correzionali). In teoria dovrebbero essere dei luoghi dove riflettere sui propri errori: dove scontare una pena, cioè un dolore, ma anche avere occasione di fare penitenza (da cui penitenziario). E più recentemente si è posto l’accento, oltre che sulla sua funzione punitiva e repressiva, e su quella preventiva e di deterrenza, anche su quella rieducativa, riabilitativa (anzi, col passare degli anni, con pietosa menzogna sociale, l’accento è stato sempre più messo sulle ultime, anche se continuavano a prevalere le prime). Ma in Italia continua a prevalere la funzione ‘immobilizzativa’, priva di qualsiasi utilità individuale e di risvolto sociale, un mero parcheggio umano. In queste condizioni, a che cosa serve?

Parliamoci chiaro. Il tasso di recidiva, in Italia, è di oltre due terzi: 2,3 detenuti su 3 tornano a delinquere (mentre tra quelli che imparano un lavoro è molto più ridotto, ma sono pochi). Siamo a oltre il doppio della media europea. Il che significa che il sistema è fallimentare, e non risponde alla sua ragion d’essere: nasce per produrre sicurezza e crea le condizioni per il suo opposto, ovvero nuove minacce alla sicurezza sociale. Se una scuola avesse due terzi di bocciati, un ospedale la stessa percentuale di decessi, o un’azienda di prodotti difettati, diremmo che è un disastro, li smantelleremmo, ragioneremmo sugli obiettivi che vogliamo raggiungere, e ci ingegneremmo per inventare qualcos’altro. Invece con il carcere si fa finta di niente, riproponendo sempre le stesse ricette che non funzionano. Aggiungiamoci gli altri problemi. In Italia quasi un terzo dei detenuti sta scontando una condanna non definitiva (in Europa è circa un quinto), la durata media della detenzione è quasi doppia della media europea, come doppia è la percentuale di persone condannate per reati legati agli stupefacenti, mentre la percentuale di persone in carcere condannate per reati non gravi è tra le più alte d’Europa. Vuol dire che è il sistema che dovrebbe chiudere, buttando via la chiave.

Aggiungiamoci il problema dei costi. Il carcere è costoso, le comunità (e altre pene alternative) costano meno e hanno tassi inferiori di recidiva. Eppure si vogliono costruire nuove carceri anziché nuove comunità, o comunque incentivare altre forme di pena alternativa. Ce n’è abbastanza per dire che il problema non è solo chi è dentro il carcere (che così come stanno le cose, resta un problema irrisolto), ma il carcere in sé, l’idea che lo sottende, che finisce per riprodurre il problema che sarebbe chiamato a risolvere. È su questo che dovremmo cominciare a ragionare. Per convenienza, non solo per umanità.

 

Carcere, il modello sbagliato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 luglio 2024, editoriale, pp. 1-5

Il vero mondo al contrario. Quando il colore della pelle è ancora un problema.

Spesso i piccoli fatterelli quotidiani sono capaci di aprire sprazzi di comprensione della società, illuminandone i lati oscuri, più di tante drammatiche notizie di cronaca, quelle che vanno in prima pagina. Ecco, ci occupiamo oggi di una di queste storie minori.

La prendiamo per buona, per come è stata riportata anche da questo giornale. Facciamo finta che sia una storia vera, anche se ci piacerebbe che non lo fosse. Ma prendiamo per buono che lo sia, perché è del resto assai verosimile: succede tutti i giorni. Ed è successo anche in un condominio vicino a Piazza dei Signori, a Treviso. Dove una signora si è sentita in diritto di esprimere ad alta voce e in presenza degli interessati (che per fortuna, essendo stranieri, non hanno capito) il suo parere sul fatto che non voleva vedere nel suo stabile “persone così” (nigeriani, neri), ospiti peraltro di un altro condomino. Il quale si è pure visto arrivare una mail e una telefonata di critica, per non dire di minaccia, o di protesta, da parte dell’amministratore di condominio e dell’agenzia immobiliare.

Ecco, la storia di Treviso è una storia emblematica. Il fatto che sia ancora possibile, nel 2024, immaginare che una persona si senta in diritto di protestare e strepitare, in maniera per così dire ovvia e naturale, e trovi l’ovvia e naturale complicità di chi pretende di gestire con le proprie regole un seppur minuscolo potere, perché nella sua casa ci sono anche (transitoriamente: e poco importa che si tratti di artisti africani ospiti della Biennale!) delle persone di colore, dei neri, è una cosa che ci riporta terribilmente indietro. Ma non alla preistoria: dopo tutto i Sapiens si sono mischiati con i Neandertal, e noi portiamo nel nostro DNA i geni di entrambi – e quelle sì, dopo tutto, erano più credibilmente delle specie diverse. Peggio: in un altro mondo. Che dà l’idea di tutta l’arretratezza di un pezzo di Veneto profondo, anche di quello che si crede ricco, perché benestante, magari istruito, e quindi in qualche modo superiore, e con più diritti: anche quello di decidere sui diritti degli altri. Questi comportamenti – certo non generalizzabili, e non lo vogliamo fare: c’è anche l’altro Veneto, e ci piace pensare sia maggioritario – sono infatti trasversali: attraversano le classi sociali, i livelli di istruzione, la distinzione città-campagna, il fatto di essere uomini o donne, credenti o non credenti, di destra o di sinistra.

Quello che stupisce è che questo non stupisca. Che le autorità non si sentano in dovere di mandare un segnale a nome della città: e cominciare a intraprendere un’opera educativa che vada nella direzione opposta. Che i membri del palazzo in cui il fatto è accaduto non si indignino contro chi ha creato il caso. Che i familiari, le amiche, i colleghi, i conoscenti (dal panettiere al parrucchiere, dal barista a chi la serve nel negozio di moda preferito) non stigmatizzino questo comportamento. Che in qualche modo lo stesso astio irriflessivo che queste persone hanno riversato su questi ospiti stranieri non si riversi invece su coloro che ne sono all’origine e lo alimentano. Ecco, manca una reazione altrettanto di pancia: non colpevolizzante, non stigmatizzante (non ha senso, non serve, non è utile: se non a far sentire ‘buoni’ gli altri, e non è detto che lo siano), ma semplicemente educativa, migliorativa del nostro vivere che chiamiamo civile. E ci manca terribilmente un criterio etico per giudicare tutto questo. E lasciarcelo finalmente alle spalle. Anche perché la semina (sotto)culturale, su questi temi, per molti anni, è stata spesso a supporto delle opinioni della signora in questione: e molti ne portano la responsabilità, negli ambiti più disparati. Ma dobbiamo avere il coraggio di dircelo, guardandoci coraggiosamente allo specchio: “il mondo al contrario” contro cui si schierava recentemente un generale trionfalmente eletto alle elezioni europee con una valanga di preferenze, segno della popolarità dei contenuti che veicola, è in realtà questo. Di chi esprime questi contenuti. Non di chi è costretto a subirli.

 

Il vero mondo al contrario, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 luglio 2024, editoriale, p.1

Caporalato: le tutele negate (su base etnica)

Non c’è solo Satnam Singh: il bracciante irregolare morto dopo aver perduto un braccio in un incidente sul lavoro, in un’azienda di Latina, perché il suo datore di lavoro l’ha abbandonato a casa, il braccio in una cassetta della frutta, senza chiamare i soccorsi. La sua storia è più clamorosa di altre per l’esito letale, e per la disumanità non solo dell’atto, ma delle giustificazioni cercate da un padrone (questa la parola corretta) recidivo nello sfruttamento di manodopera irregolare. Tuttavia vi sono casi simili anche altrove: non una regola, per fortuna, ma nemmeno un’eccezione così rara. Con maggiore frequenza nel centro-sud, dove ci sono realtà rurali in cui il sistema arcaico di questo tipo di bracciantato assume aspetti strutturati di sfruttamento para-schiavistico, con intere cittadelle stagionalmente abitate da questa umanità invisibile e non riconosciuta come tale; ma con casi non isolati anche nell’agricoltura spesso più ricca del nord, dal Piemonte al Veneto, dall’Emilia all’Alto Adige.

È un intero sistema di produzione che va messo in questione: e riguarda una filiera lunga, che parte sì dai proprietari dei campi e dagli imprenditori agricoli, ma passando attraverso molti intermediari finisce sui prezzi imposti negli scaffali dalla grande distribuzione, e in definitiva sulle nostre tavole.

Non c’è solo un problema di prevenzione e controllo, largamente insufficienti alla bisogna. A monte c’è una modalità di gestione dei flussi migratori, da tutti gli addetti ai lavori (inclusi gli imprenditori) considerata assurda, fatta di click day non controllati e in parte in mano a forme di criminalità organizzata (non si spiega altrimenti come mai oltre la metà delle domande venga fatta in Campania, che ha solo il 6% delle imprese agricole).

C’è un problema di mani mafiose nell’agroalimentare, che sono in grado di imporre un ordine illegale, con la forza quando necessario, anche perché non di rado coincidono con il datore di lavoro stesso. C’è un problema di mafie etniche dedite all’autosfruttamento delle comunità immigrate: sempre più frequentemente gli intermediari appartengono allo stesso gruppo etnico delle vittime, con l’ambiguità che spesso hanno queste figure per chi non ha altre risorse relazionali e conoscitive (a cominciare da un minimo di padronanza della lingua, delle regole di base del vivere civile e del rispetto dei contratti e delle leggi). Queste figure sono al contempo carnefici e malavitosi, ma anche mediatori e protettori, e come tali considerati e rispettati: quando non svolgono addirittura un ruolo fiduciario di legame con le famiglie allargate rimaste nel paese d’origine. Ma c’è anche un problema culturale più generale che ci riguarda tutti. Perché alla fine ci siamo noi: che non vediamo, o facciamo finta di non vedere, o di non sapere.

Ormai ci stiamo abituando ad accettare che nel mercato del lavoro viga un dualismo esplicito e visibile: tra lavori che prevedono tutele e garanzie, e quelli in cui non importa; tra lavori in regola e lavori irregolari, in nero o in grigio; tra lavori in cui si rispettano dei minimi sindacali e salariali, e interi settori dove non si rispettano più; tra lavori svolti da autoctoni e da immigrati, anche – settori in cui è ragionevole aspettarsi che chi ci lavora abbia il colore della pelle diverso dal nostro, e quindi sia normale sia pagato di meno e trattato peggio. Dove il problema sta tutto in quel ‘quindi’. E noi di questo siamo al corrente: e cominciamo a considerarlo accettabile, o comunque pensiamo di non poterci far niente. Per dire: i lavori stagionali in agricoltura sono sempre esistiti. Ma anche ai tempi delle mondine, e in altre forme di raccolta, per quanto precario, un tetto ai lavoratori lo si dava: come è possibile oggi pensare che sia normale che un datore di lavoro possa assumere decine o centinaia di stagionali stranieri, senza avere alcun obbligo rispetto all’alloggio, visto che è ovvio che non hanno una casa? Dove e su chi si scaricherà il problema?

Tutto questo non è nuovo in assoluto: le classi e sottoclassi non sono un’invenzione dell’oggi. Solo che quando a questa differenza si sovrappone anche la diversità etnica (o razziale, come la chiama qualcuno), questo meccanismo si potenzia, e finisce per rendere più larga la frattura tra chi è dentro e chi è fuori il sistema delle tutele, e più ambiguo il nostro ruolo.

 

Caporalato: chi lavora tutelato e chi no, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 luglio 2024, editoriale, pp. 1-5

Veneto 2040. Inesorabile demografia: pochi o plurali

Il numero è 380mila. Se si preferisce, l’8%. È la quantità di popolazione veneta che sparirà da qui al 2040. Ancora di più, 440mila, sono invece gli occupati che non saranno sostituiti da nuovi lavoratori, semplicemente perché quei nuovi lavoratori non saranno nemmeno nati, e quindi non copriranno il numero di persone andate nel frattempo in pensione. Il tutto, solo per mantenere stabile la base occupazionale, senza neanche immaginare una sua crescita. Un numero enorme, che Fondazione Nordest fa bene a metterci sotto il naso in tutta la sua asciutta ma esplicita drammaticità. E che è stupefacente non produca dibattito politico e decisione pubblica: perché è la questione più importante, insieme a tutte quelle correlate con l’evoluzione tecnologica e l’intelligenza artificiale, con cui dovremo confrontarci da qui ad allora. Niente è più pervasivo, e ha effetto in più ambiti, della demografia: non solo lavoro, ma scuola, sanità, urbanistica, università, servizi, consumi, welfare, previdenza, cultura, religione, e qualunque altra cosa possa venirvi in mente.

Se non si riflette su questi dati, niente si può programmare. E se pensate che il 2040 sia lontano, vi sbagliate di grosso. C’è appena il tempo necessario per prepararsi. Non solo perché quanto accadrà allora, in termini di previsioni demografiche, è già prevedibile oggi con inesorabile precisione. Ma perché le previsioni sul domani sono in grado di determinare e modificare le scelte di oggi di molti soggetti, aggravando il problema. Quanti giovani, ad esempio, conoscendo questi dati (e li conoscono più di quanto crediamo, o li intuiscono, perché li sperimentano già oggi osservando il poco attrattivo paesaggio economico e sociale che li circonda, e vedendo le differenze quando viaggiano all’estero: e viaggiano…), decideranno di andarsene già prima di entrare nel mondo del lavoro, magari approfittando di un Erasmus, o decidendo di frequentare l’università direttamente altrove?

Certo, ci sarà più spazio, anche contrattuale, per i giovani che entrano nel mercato del lavoro. Certo, potranno entrarci più donne perché finalmente avranno flessibilità oggi inesistenti, che consentiranno di conciliare famiglia e lavoro (che è un problema che dovrebbero sentire anche gli uomini): la società, i datori di lavoro, saranno costretti a adeguarsi. Certo, si potrà eventualmente lavorare più a lungo (magari in forme diverse dal passato), visto che viviamo di più e più in salute di prima. Ma chi si illude che questo basti, e consenta di eludere l’ineludibile, si sbaglia di grosso: occorreranno anche immigrati. Prova ne sia che anche i paesi con pochi NEET (giovani che non lavorano né studiano) e una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, hanno bisogno anche di manodopera – e di popolazione – immigrata. Ecco perché, correlata alle proiezioni demografiche, c’è la questione della gestione dei flussi migratori: che non si potrà limitare al numero di lavoratori necessari, dato che anche loro, come tutti, tendono a costruire relazioni e a mettere su famiglia (anche gli immigrati hanno desideri, progetti, e si innamorano persino). Ce ne saranno molti di più, e ne desidereremo molti di più. La società è destinata a cambiare radicalmente, a pluralizzarsi, a normalizzare ciò che oggi viene considerato eccezionale, a fisiologizzare ciò che molti ancora considerano patologia. La competizione, presto, sarà su come attrarli, gli immigrati, oltre che su come trattenere i nostri giovani. E dovremo fare concorrenza a altre regioni (per motivi diversi, sia la Lombardia che l’Emilia-Romagna), già ora meglio attrezzate di noi. Mentre la politica (ma anche la cultura diffusa) è ancora impegnata nella battaglia di retroguardia di respingerli, gli immigrati, senza sapere come né perché. Certo, bisognerà studiare, confrontare, organizzarsi: non si può pensare che i processi accadano e basta. Bisognerà favorire i processi di integrazione come non si è fatto fino ad ora, e spendere per farlo bene, come del resto si spende in istruzione per vivere in un paese civile. Come sempre, come per ogni cosa, è questione di governo, cioè di prendere decisioni: se non si fa, si crea disordine; se lo si fa, si produce un ordine decentemente soddisfacente per tutti. L’alternativa, a non fare nulla, è un orizzonte cui rischiamo di doverci abituare: quello di una maggiore povertà, di una crescente solitudine, di una minore dinamicità che spingerà verso il basso i nostri indici di vivibilità. Niente che ci convenga, in ogni caso.

 

Leggete questi numeri, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 giugno 2024, editoriale, pp. 1-7

L’autonomia è finita. Per mancanza di autonomisti…

È un triangolo: il voto era europeo, il luogo il Veneto, ma le conseguenze nazionali. Che a loro volta influiranno sul destino del Veneto, in un complicato ma prevedibile effetto di feedback. Possiamo leggerlo così, il risultato che ci consegna la tornata elettorale per eleggere i parlamentari europei che spettano all’Italia.

La questione che principalmente balza all’occhio è il futuro dell’autonomia differenziata. Non si votava su questo, eppure le conseguenze saranno pesanti. La regione più autonomista d’Italia, quella che più di tutte ne ha fatto una bandiera, un simbolo, e spesso l’unica ragione di una offerta politica (al punto che per molti anni è bastata la parola per scaldare i cuori: anche quando era del tutto priva di contenuti concreti) ha votato con la percentuale più alta di tutte il partito più centralista che c’è, Fratelli d’Italia, con una maggioranza schiacciante, triplicando addirittura il risultato della Lega. Ma c’è di peggio. La Lega stessa mantiene un risultato appena decente solo perché si è affidata al fenomeno acchiappa voti (una scelta furba più che astuta) che si chiama generale Vannacci: un personaggio centralista nel midollo e nei messaggi veicolati, con l’anima ancorata al passato patriottico e tradizionalista (ricorrendo persino a quello repubblichino della X Mas), che si può stare certi non farà nulla per aiutare (semmai farà di tutto per contrastare) il sogno e il disegno autonomista teorizzato dal lighismo originario.

Non solo. È stato chiarissimo che i ceti produttivi, in passato alfieri dell’autonomia per sfuggire ai vincoli di Roma, hanno votato essi stessi il partito della premier. E la conseguenza è che Fratelli d’Italia prenoterà, con ottime probabilità di riuscita (sarebbe quasi un atto dovuto) la presidenza della regione, che non sarebbe più quindi a guida autonomista ma sovranista: e se non c’è un traino forte da parte della regione direttamente e maggiormente interessata, chi mai dovrebbe fare la fatica di spingere per un’autonomia che al massimo sarà utilizzata come merce di scambio, non solo rispetto al premierato? Possiamo prevederne già oggi il risultato: si farà prima o poi, ma senza fretta, un qualcosa che si possa definire un inizio di autonomia, per accontentare la Lega, ma saremo lontanissimi da quanto immaginato da Zaia quando lanciò il referendum sul tema, e dai cittadini veneti che lo votarono in massa con una fede quasi messianica, e come tale molto poco coi piedi per terra. Una magnifica illusione, insomma, oggi inesorabilmente al tramonto. Del resto, a picconarla non ci si è messa solo la maggioranza della maggioranza, ma anche la maggioranza dell’opposizione, dato che il Partito Democratico, con una scelta forse vincente nelle regioni del Sud, ma che pagherà in Veneto, ha deciso di mettersi alla testa di una dura battaglia contro ogni forma di autonomia differenziata: anche da parte di chi era a favore, ma dovrà adeguarsi per disciplina di partito. Di fatto non è neanche più “la Lega contro tutti” per l’autonomia, che sarebbe almeno uno slogan capace di coagulare consenso (e che piacerebbe a Salvini: in fondo ha una declinazione nostalgica nel “molti nemici molto onore” di mussoliniana memoria): ma “nessuno a favore, nemmeno la Lega”, come abbiamo visto. Almeno finché alla sua guida ci resterà Salvini. Ma Salvini, come noto, non ha alcuna intenzione di lasciare il comando, nonostante il disastro della sua leadership (che in passato, è vero, aveva salvato il partito: ma è destino dei leader quando credono troppo in sé stessi passare rapidamente dalle stelle alle stalle, basti pensare a Renzi). Un Salvini che non solo ha fatto oggi perdere voti, ma ha snaturato completamente la ragion d’essere della Lega, trascinandola all’opposto dei suoi ideali. Al punto che il suo fondatore, Umberto Bossi, ha votato Forza Italia, mentre la sua creatura politica, originariamente orgogliosamente antifascista, passava al fiancheggiamento aperto del peggio del neofascismo (e non ci riferiamo a Giorgia Meloni, ma agli ultras alla sua destra): ironicamente, per opera di un leader, Salvini appunto, che aveva cominciato la sua carriera nel consiglio comunale di Milano come leader dei “comunisti padani”, l’ala sinistra e progressista della Lega. Ma, si sa, è la politica. Di fronte alla quale non ci si può stupire che il partito principale sia quello del non voto.

 

Il partito snaturato. Le mutazioni della Lega, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 giugno 2024, editoriale, pp. 1-6

Dante, Maometto e la Divina Commedia. La strada per l’inferno (dantesco) è lastricata di buone intenzioni

Quando di una vicenda si appropria la politica per alimentare una presunta guerra culturale, la notizia vera (peraltro, datata: risalirebbe a qualche mese fa) sparisce dietro le polemiche e le strumentalizzazioni. Per cui prendiamola per come ci è pervenuta. Mi riferisco all’esonero di due studenti musulmani di una scuola media di Treviso dallo studio della Divina Commedia, per rispetto della loro fede religiosa, dato che Dante colloca il profeta dell’islam all’inferno.

Nei resoconti stampa si parla dell’iniziativa di un o una insegnante, di una spiegazione data alle famiglie su cosa i figli avrebbero studiato (che quindi, richieste di un parere, hanno preferito l’esonero), o di una richiesta delle famiglie stesse – e le versioni diverse già nascondono differenti opinioni politiche e opzioni ideologiche.

Due considerazioni sul fatto in sé, e un ragionamento sulle sue conseguenze. Il fatto. Se è avvenuto come descritto, naturalmente è – prima che grave – sciocco e superficiale. Perché in generale non si chiede un parere alle famiglie su ciò che i figli debbono o non debbono studiare: il programma è lì per tutti, e guai se la scuola comincia ad aprire una trattativa sui contenuti. E perché non se ne può più – quando si tratta di pluralismo religioso – di fare le cose male a fin di bene: come noto, la strada dell’inferno, anche quello dantesco, è lastricata di buone intenzioni. D’altro canto, una qualunque famiglia, di qualsiasi religione (anche cattolica), magari di livello culturale modesto, posta di fronte all’alternativa se studiare un autore di cui non sa nulla ma che parla male della fede in cui crede, oppure no, sceglierebbe la seconda opzione. Anche se – se è vero che l’alternativa è stata Boccaccio – viene da sorridere pensando ai risvolti moralmente più problematici e per l’appunto boccacceschi della vicenda. Dettaglio ironico ulteriore: lo studio di Dante sarebbe potuto servire per aprire alla comprensione della cultura islamica. Uno dei primi libri che ho preso in mano, quando ho cominciato a occuparmi di islam, per cercare di leggere il mondo dal punto di vista altrui e ragionare sulle reciproche influenze culturali, insieme a “Storici arabi delle Crociate”, pubblicato da un grande orientalista italiano, Francesco Gabrieli, fu proprio “L’escatologia islamica nella Divina Commedia” di Miguel Asín Palacios, in una preziosa edizione in due volumi (quasi settecento pagine di ponderosa erudizione) che dava conto anche della polemica seguita alla pubblicazione del libro: non sorprendente, dato che l’autore intendeva dimostrare come il poema dantesco fosse fortemente ispirato a fonti islamiche, e in particolare all’ascensione miracolosa di Muhammad al cielo, che i musulmani celebrano in una ricorrenza ad essa dedicata. Tesi rafforzata da ulteriori successive scoperte letterarie e traduzioni. Le vie della cultura sono infinite, e spesso sorprendenti.

Le conseguenze di queste polemiche sono tuttavia sociali e culturali. Perché innescano un riflesso condizionato di polemiche su una ipotetica ‘cancel culture’, e soprattutto di accuse ai musulmani. Vale la pena notare, allora, che per lo più non sono stati loro a fare richieste di rifiuto o cancellazione: che si trattasse del presepe o della recita di Natale, in cui i bimbi musulmani, pur di partecipare, farebbero volentieri anche la parte di Gesù (venerato profeta dell’islam, secondo di importanza solo a Muhammad) o di Maria (cui è dedicata una delle sure più importanti del Corano). Peraltro molti minori musulmani sono iscritti a scuole cattoliche per scelta proprio dei genitori, che – come molti italiani, più o meno credenti – preferiscono a torto o a ragione un ambiente educativo religioso a uno laico. Queste iniziative sono state sempre proposte da insegnanti di buone intenzioni e discutibili valutazioni, senza consultare i musulmani, al loro posto e a loro insaputa. Ma grazie al tam tam mediatico e alla strumentalizzazione politica si inscrivono nella memoria di ciascuno come inaccettabili pretese dei musulmani che non vogliono integrarsi: e allora, che se ne tornassero a casa loro… È questo il peggior servizio che si potrebbe fare ai musulmani, e il maggior danno che iniziative irriflesse come queste producono. Sarebbe il caso che anche gli insegnanti ci ragionassero sopra, dato che finiscono per ottenere il risultato opposto a quello auspicato.

Il caso Dante. Chi pensa di aiutare l’islam, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 28 maggio 2024, editoriale, pp, 1-2

Fleximan, un eroe improbabile

Fleximan è il nome improbabile – che fa pensare più a un idraulico o a un contorsionista da circo di periferia, che a un difensore del popolo, a un Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri – che è stato dato a chi (forse più di una sola persona) ha fatto saltare un po’ di autovelox in giro per il Veneto, diventando in breve una specie di amato vendicatore popolare, una leggenda minore del Nordest. Ora che si è capito chi incarna davvero questa figura (almeno per alcuni dei danneggiamenti avvenuti), si può fare qualche considerazione in più. Sul soggetto in questione, e sulle emozioni che oggi lo circondano.

Normale che possa fare simpatia. Perché è vero che gli autovelox vengono installati allo scopo fondamentale di fare cassa. È vero pure che talvolta vengono programmati a tavolino, in anticipo, gli obiettivi economici che la polizia locale deve raggiungere in termini di raccolta fondi attraverso le multe. È vero anche che spesso, proprio per questo, vengono installati sulle strade di maggiore percorrenza per gli automobilisti in transito: in modo da colpire, in proporzione, più le persone che non abitano nel territorio che incassa il balzello (anche se non è sempre così: il caso di Cadoneghe, dove pure sono stati fatti saltare gli autovelox, insegna), e non pagare quindi il prezzo elettorale della vessazione. Tutto vero, condannabile e ingiusto: anche perché le multe non sono un’imposta progressiva – ed essendo uguali per tutti, è al più povero, al meno abbiente, che fanno percentualmente più danno. Ma è anche vero che gli autovelox stessi, come forma di dissuasione, hanno o dovrebbero avere una funzione precipua differente: tutelare la salute e le vite umane, da chi guida sulle strade senza regole e a velocità eccessiva, nelle ore diurne e peggio ancora in quelle notturne, provocando una lunga teorie di sofferenze, di vittime della strada (che è anche scorretto definire così: sono vittime di automobilisti indisciplinati e irresponsabili – la strada è innocente…), di famiglie rovinate, di tragedie umane. E semmai ci sarebbe da ragionare seriamente su quella specie di culto un po’ provinciale e vetusto, da boom economico, dell’automobile come veicolo di libertà e sua manifestazione, possibilmente senza regole, che sia il limite di velocità o di tasso alcolemico, che ancora è così presente in certo Veneto profondo, incapace di uscire da questa in fondo primitiva e persino banale ostentazione del proprio ego.

Fleximan quindi (o, come si legge in molte pagine sui social, Fleximen, al plurale: manco scriverlo in inglese corretto…) non è un eroe. E se lo è, appartiene a quella vena un po’ picaresca, vagamente anarchica, che alberga nell’animo popolare veneto, spesso con venature di estrema destra più antropologiche che veramente ideologiche (anche se queste non mancano: il nostro è stato segretario di Forza Nuova e ama usare la parola ariano con manifesta convinzione…). Persino certe istanze autonomistiche sono declinate, in fondo, in questo modo: facciamo da noi, facciamoci giustizia – anche – da noi, a modo nostro. E forse c’è un filo rosso (o nero) che lega le imprese del Tanko, il mugugno senza capacità costruttiva contro l’autorità quale che sia (inclusa quella che sarebbe l’incarnazione della vicinanza al territorio, come l’ente locale), benissimo impersonato dal Pojana, il personaggio del piccolo imprenditore veneto sempre in polemica col mondo inventato dal comico Andrea Pennacchi, e appunto Fleximan, il supereroe in saòr, che produce anche qualche effetto emulativo.

Non stupisce quindi, ma un po’ amareggia, e un po’ anche addolora, che sia diventato in poche ore un simbolo, un idolo quasi, con i suoi supporter acritici e i suoi fan più sfegatati, una sorta di capopopolo provinciale – che non ha né la tragicità di un Masaniello né la dignità e l’arguzia di un Rugantino – da sostenere nella sua lotta contro lo stato (che poi siano i comuni, all’occhio superficiale non fa differenza), a cui si vogliono pagare le spese legali lanciando collette, e che molti invocano fin d’ora come candidato alle elezioni. Peccato che abbia perso l’occasione delle europee, dato che le liste sono già chiuse, e il posto di spicco del protestatarismo guascone, da uno contro tutti, gli sia stato soffiato da altri personaggi in qualche modo simili, magari con la divisa e le stellette – mentre ieri erano gli agitatori no vax e domani chissà. Avanti il prossimo…

 

Tutto fuorché un eroe, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 19 maggio 2024, editoriale, pp. 1-6