Migranti e sbarchi: la retorica non serve
La retorica non serve. La strumentalizzazione politica ancora meno. Sono morti, e non hanno colpe. Ma non è una notizia inaspettata, meno ancora sorprendente. Ce ne sono stati altri in passato, di naufragi di migranti. Ce ne saranno in futuro. Ma c’è anche uno stillicidio quotidiano di morti che fanno meno notizia, perché non accadono tutte insieme, non fanno massa, e al contempo sono fatto ordinario, quotidiano (avvengono letteralmente tutti i giorni), anche se restano impercepite ai nostri occhi. In mare, ma anche via terra, sulla rotta montagnosa, piena di guardie e di confini da attraversare, dei Balcani, non meno pericolosa di quella del Mediterraneo centrale e del Mediterraneo orientale.
Inutile, meschino, triste, impudico, trasformare i cadaveri, le famiglie distrutte, il dolore dei sopravvissuti, i bambini annegati, in uno strumento di polemica politica. Con chi da una parte accusa il buonismo immigrazionista (magari impersonato dalle ONG) di fungere da fattore di attrazione, producendo le partenze, e chi dall’altra parte accusa il cattivismo antiimmigrazionista di impedire i salvataggi, producendo gli annegamenti. Né gli uni né gli altri sono la causa dell’ennesimo naufragio. Né gli uni né gli altri l’avrebbero potuto impedire.
Come sempre, la questione è più complessa, le risposte necessarie diversificate, il risultato comunque incerto, l’andare per tentativi ed errori una necessità e un rischio da correre. Ma è certo che molto si potrebbe fare, perché le cose vadano altrimenti. E qualunque cosa sarebbe molto più del niente o quasi niente attuale.
Cominciamo dall’inizio. L’Europa, tutta, e l’Italia peggio di tutti gli altri paesi, è in calo demografico, ha bisogno di manodopera, e continua a importarla facendo finta che non sia così. La prima cosa da fare è ammettere il dato, invece di negarlo, e dividersi quindi sulle soluzioni possibili, sui modi di gestirla, l’immigrazione necessaria, invece di dividersi sull’esistenza del problema. Tutto potrebbe e dovrebbe discendere da lì: modi alternativi di arrivare, regolamentati, selezionati, ma comunque gestiti, in maniera legale, con mezzi normali (l’aereo, la nave), in tempi normali (ore, non mesi o anni, come capita a molti), con costi (umani ed economici) accettabili anziché insostenibili, con permessi di soggiorno per ricerca di lavoro, visto che quello è l’obiettivo reale sia di chi arriva sia di chi li riceve, anziché improbabili richieste di asilo (che poi rigetteremo in buona parte, producendo irregolarità), con politiche di integrazione sociale e culturale davvero praticate, e via di conseguenza. Da qui discenderebbe anche il resto: accordi con i paesi di partenza, collaborazione interstatuale per combattere le migrazioni clandestine e le mafie transnazionali che le gestiscono (ci sarebbe, se ci fossero canali legali, che fornirebbero anche la giustificazione morale per combattere con forza gli arrivi irregolari), cooperazione allo sviluppo (il tanto citato e mai praticato, nemmeno da chi lo evoca continuamente, “aiutiamoli a casa loro”, che poi è sempre una convenienza reciproca, come ha mostrato a suo tempo il piano Marshall). E, a valle, accordi di redistribuzione – o, nel caso, di respingimento – sensati e condivisi tra i paesi di arrivo.
Certo, dovrebbe essere una politica europea. Sarebbe meglio e funzionerebbe meglio. E c’è un’ignavia egoista dei paesi che non sono alla frontiera esterna della Unione Europea, che non vedono arrivare gli sbarchi e nemmeno i rifugiati via terra, nonostante i nuovi muri elettrificati, che va combattuta. È curioso tuttavia che si lamentino dell’inesistenza dell’Europa, o della sua poca efficienza, coloro che rifiutano di darle i mezzi e il potere decisionale per agire, mantenendo le politiche dell’immigrazione come competenza esclusiva nazionale, esercitando il proprio veto ad azioni comuni, salvo lamentarsi della loro assenza. Detto questo, anche i singoli stati potrebbero fare molto, anche da soli. Ma occorre volerlo, e prima ancora occorre capire che sarebbe necessario. Che è ora di smetterla di titillare gli istinti peggiori della pubblica opinione, per fare leva invece sulle sue emozioni e sui suoi interessi, ragionando sulle convenienze e le decisioni concrete, a livello pratico, prima ancora di insistere su più o meno sacri principi che poi sono usati solo strumentalmente, e comunque convincono solo i già convinti. La posta in gioco non è solo la vita degli esseri umani che arrivano. È la de-umanizzazione di chi li vede arrivare, e non fa niente. E tra un po’ non sentirà più niente.
Migranti, c’è una via d’uscita, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 marzo 2023, editoriale, p.1