La società della prevenzione (del vino e d’altro)

Viviamo in una società che sente di doversi e doverci proteggere da tutto, e che spesso ci impone di farlo. Preventivamente. Ragionevole, all’apparenza: salvo che la deriva comincia a sembrare un po’ estremista. Tra poco il casco protettivo, che è l’immagine simbolica che meglio riassume la nostra ossessiva ricerca di sicurezza, e che abbiamo giustamente introdotto nelle più svariate attività, diventerà una consuetudine, se non un obbligo, anche in casa, per proteggere i nostri bimbi dagli spigoli e gli anziani dalla caduta dalle scale. Una metaforica cintura di sicurezza ci avvolge in un numero sempre maggiore di attività. Tutto giusto, tutto comprensibile, tutto spesso necessario e in alcuni casi doverosissimo: pensiamo alle precauzioni, purtroppo ancora mal rispettate e quindi insufficienti, che ci proteggono dagli incidenti sul lavoro, o all’obbligo vaccinale, che ho difeso strenuamente proprio su queste pagine. E tuttavia, a volte, quando se ne estende troppo l’ambito di applicazione, più che la cura o la soluzione, questo atteggiamento mentale comincia ad assomigliare pericolosamente alla malattia, o a una sua caricatura.

Pensiamo alla attuale discussione sull’introduzione, anche sulle bottiglie di vino, di apposite minacciose etichette tipo quelle che ci sono sui pacchetti di sigarette. E sulla sua supposta pericolosità intrinseca, cancerogenicità o quant’altro. È una mentalità che sembra figlia della ossessione di cui sopra. Tutto, potenzialmente, fa male. Tutto è pericoloso. Tutto può essere persino mortale. Il fumo. Il vino e gli alcolici bevuti in eccesso. Ma anche il caffè, o le bevande zuccherate. Persino l’acqua, volendo, in quantità eccessive si usa in uno specifico tipo di tortura (sì, lo so, è un paradosso: ma spesso ci aiutano a comprendere meglio la realtà). Poi si comincia con i cibi, e se si eccede non so quanti se ne salvano: a cominciare naturalmente dal cibo spazzatura, per il quale tuttavia non si parla di etichettatura (dovremmo etichettare interi scaffali di supermercato). Si prosegue con gli attrezzi con cui li prepariamo (il terribile coltello). Si continua con l’automobile. Ma anche la bicicletta, si sa. Persino l’inventore del jogging, attività salutista per eccellenza, Jim Fixx, diventato ricco e famoso con i suoi libri e i suoi insegnamenti, è morto di infarto a soli 52 anni, proprio al termine della sua corsa giornaliera. Mentre Winston Churchill, che quando gli si chiedeva il segreto della sua longevità rispondeva “Lo sport. Mai fatto”, è campato 91 anni. Non arriviamo a dedurne che la corsa fa male e invece vino bianco e sigaro a colazione, per poi proseguire con whisky e un debole per lo champagne, come pare fosse la giornata del primo ministro britannico, facciano bene. Ma qualcosa, anche questo, ci dice.

Per farla breve: tutto, potenzialmente, fa male. Tutto, in dosi eccessive, è pericoloso. E il comportamento di chi è pericoloso anche per altri va doverosamente disincentivato e punito (ad esempio chi guida in stato di ubriachezza o sotto gli effetti della droga). Dubitiamo tuttavia che la soluzione sia riempirci di etichette minacciose: in frigo, sulle posate, sulla portiera dell’auto. Tanto varrebbe che lo Stato, o l’Unione Europea, o il necessario – a questo punto – Ministero della Prevenzione, presupposto del Grande Fratello (l’originale, quello di Orwell, non la boiata televisiva) incoraggiassero una campagna permanente di pubblicità progresso con una sola frase: “Memento mori”.

Il vino, per dire, ha una storia millenaria, legata alla religione, alla cultura, alla socialità (attività in sé lodevoli, necessarie, e pure notoriamente curative). Dal “Symposion” di Platone a “In vino veritas” di Kierkegaard, passando per l’ubriacatura di Noé e il miracolo delle nozze di Cana (dove dubitiamo ci si sia fermati alla modica quantità di un bicchiere), esso è parte costitutiva di un processo di civilizzazione. Possiamo imparare a bere meno e meglio. Ma non sarà il terrorismo psicologico un po’ infantile di una stupida etichetta a migliorarci. Semmai un raffinamento progressivo del gusto: che si impara con la pratica, con l’educazione guidata, non con le minacce o i divieti.

Forse dovremmo imparare dal dibattito bioetico: in cui, di fronte all’accanimento terapeutico (non è forse lodevole far vivere le persone più a lungo possibile?), ci si comincia a interrogare se quello che ci occorre sia dare tempo alla vita o vita al tempo. Io propendo per la seconda ipotesi.

 

La società della prevenzione. Il vino (e non solo), in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 gennaio 2023, editoriale, p. 1