La bioetica applicata ai no vax

La bioetica non è una disciplina per specialisti. Quando si traduce in casi concreti, diventa un fatto popolare, che ci trascina in discussioni appassionate, schieramenti contrapposti, scontri di valori. È per questo che ci ricordiamo i nomi di Eluana Englaro, di Piergiorgio Welby o DJ Fabo. Perché in quei casi il paese si divise, e discusse per mesi, a tutti i livelli: dal parlamento al tinello di casa. Ed è interessante che le divisioni non furono per schieramenti presunti (cattolici contro non credenti, destra contro sinistra): i sondaggi dell’epoca testimoniano una divisione per motivi di coscienza, a seguito di riflessione individuale – tanto che anche i cattolici, i non credenti, la destra e la sinistra si divisero al loro interno. C’è un motivo per cui questo accade: i casi concreti ci costringono a chiederci cosa faremmo al posto delle persone coinvolte: persone come noi. Cosa avremmo fatto al posto di Beppino Englaro? Avremmo lottato per togliere nostra figlia da un innaturale attaccamento (non terapeutico, poiché non in grado di curare) a una macchina? E al posto di Welby, malato di distrofia muscolare? Avremmo chiesto di essere aiutati a morire?

È giusto discutere della questione della cura dei no vax allo stesso modo. Facendoci, da non specialisti, le domande di base. Cominciando dalla prima: devo vaccinarmi? Crediamo che una persona, per quanto riguarda le scelte che hanno a che fare SOLO con la propria vita, sia un soggetto sovrano: è il motivo per cui abbiamo, volendo, la possibilità e la libertà di suicidarci (o di darci, che so, all’alcol, o sparire dalla circolazione): assumendoci le conseguenze dei nostri gesti. D’altro canto lo stato ha il dovere, opposto, in caso di bisogno (ad esempio per motivi di salute pubblica), di imporre dei comportamenti di tutela collettivi, e la società di farsi carico comunque delle persone: ecco perché cura i malati, anche i tumori al polmone dei fumatori o la cirrosi epatica dei bevitori, cerca di recuperare i tossicodipendenti, o di riabilitare chi ha commesso reati, (tutte persone che, si potrebbe dire, se la sono cercata).

Il problema sorge quando le nostre scelte non hanno conseguenze solo su noi stessi: ad esempio quando siamo in concorrenza con altre persone, come accade per i posti in terapia intensiva, dati magari a dei no vax, che avrebbero potuto vaccinarsi, e tolti quindi a persone con altre patologie, incolpevoli e senza alternative. Di fronte a questi dilemmi la società dovrebbe, per prima cosa, fare di tutto per non dover arrivare ad alcuna scelta: così come si cerca di curare tanto il diversamente abile che l’anziano ammalato, e per estremizzare, il soldato del nostro esercito o il nemico ferito. Altrimenti si ricade nell’odiosa e vergognosa distinzione, che molti effettivamente praticano, per cui si chiedono le tutele per sé e non per altri: prima noi (e spesso si sottintende ‘solo’ noi), prima gli italiani, prima quelli della mia regione, prima i bianchi, magari… Una regressione di civiltà: che si tratti di un posto letto in ospedale, di un posto in un asilo o di una casa popolare. Davvero si è fatto tutto il possibile – bisognerebbe invece chiedersi – prima di arrivare alla scelta estrema di escludere qualcuno? Scopriremmo che, spesso, no, non si è fatto tutto il possibile, e sì, ci sono margini per fare di più.

Detto questo, prima o poi ci si scontra effettivamente con un problema di limiti e di risorse scarse: ed è in questi casi che sono necessarie delle scale di valore e delle gerarchie di priorità. Lo stato (o le sue istituzioni) può intervenire. Con degli obblighi, eventualmente, come accaduto con il vaccino: poiché le conseguenze ricadono su tutta la società (con gravi danni economici, psicologici e sociali), si può obbligare a una condotta specifica. E con delle regole che dettino le priorità. È qui che si apre il dilemma dei posti in terapia intensiva, oggi in discussione nelle commissioni bioetiche degli ospedali di tutta Europa. Prima ci si deve preoccupare di aumentare i posti disponibili, per non andare a detrimento di nessuno. Ma arriva il momento in cui tocca scegliere. Con l’ultimo posto letto rimasto a disposizione, è giusto che curi un no vax che poteva avere un’alternativa, o un paziente oncologico che non ce l’ha? A questo punto può diventare legittimo privilegiare chi non ha scelta. Senza colpevolizzare chi ce l’ha. Il problema non è tanto far pagare le cure ai no vax (dopo tutto, non le paga nemmeno un alcolista, un tossicodipendente e nemmeno un delinquente feritosi durante una rapina – che qualche responsabilità rispetto alla propria situazione ce l’hanno). Ma si potrebbe forse ragionare su una specie di dichiarazione anticipata di trattamento, che costringa il no vax ad assumersi le conseguenze della propria scelta: non mi vaccino, ma accetto, nel caso, di non prevalere su altri che non hanno avuto scelta. Forse farebbe anche capire a qualcuno quale è davvero la posta in gioco.

 

I no vax e l’onere di una scelta, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 21 gennaio 2022, editoriale, p.1