Immigrati: l’ipocrisia del click day
Tra una settimana, il 27 marzo, alle ore 9, è previsto il famigerato click day per l’assunzione di immigrati. Una procedura tra il contorto e il perverso che dovrebbe consentire l’ingresso regolare in Italia di oltre 80mila lavoratori, assunti direttamente dalle aziende (per essere precisi, facendo finta che la cifra non tonda sia veramente frutto di un attento studio corrispondente al fabbisogno – e non lo è, nemmeno alla lontana –: 82.705, di cui 38.705 per lavoro non stagionale e autonomo e 44.000 per lavoro stagionale). Il decreto che lo prevede indica anche i settori in cui questo è possibile, ad esclusione di tutti gli altri, dove pure il fabbisogno di manodopera è presente.
In realtà il meccanismo è più complesso di così: la burocrazia ci mette sempre entusiasticamente del suo per trasformare quella che potrebbe essere la normalità in un incubo. La finzione, accettata come tale, prevede che, prima, si superino di slancio alcuni ostacoli: a) le aziende presentino agli uffici competenti sul territorio il modulo di richiesta per lavoratori non dell’Unione Europea non stagionali; b) i Centri per l’impiego pubblicizzino gli annunci agli stranieri già residenti sul territorio, in modo da proporli alle aziende; c) se nessun candidato si presentasse, o se il Centro per l’impiego non rispondesse entro 15 giorni (ciò che costituisce la normalità, da tutti conosciuta), le aziende acquisiscono il diritto di costringere i loro impiegati a stare dalle 8 e 55 del mattino con il ditino pronto sul portale dedicato del Ministero dell’Interno, sperando in una botta di fortuna, che solo alcune avranno. Per il lavoro stagionale in agricoltura la procedura è semplificata: e parliamo di un settore dove un terzo delle ore lavorate lo sono per mano straniera. Di fatto, sia la possibilità delle imprese di assumere, sia quella di alcuni immigrati di regolarizzarsi (perché a questo serve il click day, e tutti lo sanno, pur facendo finta che non sia così: ad assumere chi è già in Italia irregolarmente – spesso perché diventato irregolare a causa della farraginosità delle norme, o dei ritardi nell’erogazione dei permessi – e non a far veramente arrivare qualcuno da fuori), è affidata al caso: un’assurda e inquietante rappresentazione tecnologica del fato, che anche quest’anno, come ogni anno, deciderà del destino delle persone, di chi è sommerso e di chi è salvato (e delle imprese che assumeranno e quelle che no).
Ora, poiché tutti sanno che si tratta di una complicata presa in giro, per giunta largamente insufficiente rispetto al fabbisogno, non sarebbe più serio e più civile dire esplicitamente come stanno le cose, ammettere che abbiamo centinaia (non decine) di migliaia di posti di lavoro vacanti, e centinaia (non decine) di migliaia di irregolari che è conveniente per tutti regolarizzare, e consentire un meccanismo (adottato da anni in paesi assai civili e seri dell’Unione Europea, peraltro) di sanatoria individuale (la si chiami regolarizzazione, se la parola fa paura), che consenta alle imprese di assumere un irregolare che già conosce, su semplice richiesta del datore di lavoro o del lavoratore, riducendo al minimo gli adempimenti burocratici necessari?
Poi, magari, si potrebbero e dovrebbero invece concentrare le energie e le risorse sulla formazione professionale delle figure necessarie, e sulle politiche dell’alloggio: aspetti, in particolare il secondo, su cui le imprese – che protestano giustamente per la mancanza di manodopera e la complessità della burocrazia – invece glissano felicemente, anche quando ammettono di non avere bisogno solo di braccia, ma di persone. Di fatto, in molti ambiti (dal turismo all’agricoltura), su questo si sono fatti persino passi indietro rispetto ai tempi delle mondine, a cui almeno un tetto veniva fornito dal datore di lavoro. Mentre molto ci sarebbe da fare, insieme: imprese, organizzazioni dei lavoratori, ma anche regione e enti locali, che invece nella maggior parte dei casi se ne lavano bellamente le mani, salvo lamentarsi degli effetti secondari negativi della gestione dei fenomeni migratori, incolpando magari lo stato o l’Unione Europea se gli immigrati dormono sulle panchine (salvo presenza di dissuasori, o innaffiamento notturno, come qualche volta è persino successo, in passato).
Quello che occorre è semplicemente una onesta assunzione di responsabilità, da parte di tutti. Altrimenti, teniamoci il click day. Senza lamentarci, però, né dell’irregolarità degli immigrati né della mancanza di lavoratori.
Immigrati, il click day e l’ipocrisia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 21 marzo2023, editoriale, p.1