Il razzismo diffuso che non si vuole vedere
Quando ne ha parlato Paola Egonu a Sanremo, in molti si sono affrettati a darle dell’ingrata: con tutto quello che ha avuto dall’Italia, si permetteva di sputare nel piatto dove mangiava, anziché tacere e obbedire. Senza accorgersi che, così dicendo, confermavano esattamente quanto Egonu cercava di mostrare: l’esistenza, in Italia, di un razzismo popolare, quotidiano, diffuso, strisciante, ma non di meno frequente e troppo spesso accettato. Come confermano tutte le domeniche le partite negli stadi delle serie minori, e tanti altri tristi episodi di vita quotidiana, nelle scuole, negli autobus, al lavoro o nelle discoteche. Nessuno dice che sia un fenomeno maggioritario. Non lo è nemmeno – ci piace sperare – l’omofobia, o il sessismo che porta alla prevaricazione e alle molestie sulle donne, quando non alla violenza sessuale. Ma parlarne, affrontarlo esplicitamente, è il modo migliore per cercare di riconoscerlo e sradicarlo. Dunque bene ha fatto Egonu. E benissimo ha fatto l’arbitro trevigiano Mamady Cissé a interrompere una partita di importanza locale dopo un insulto razzista arrivato al suo indirizzo.
L’esempio, del resto, viene dall’alto. A chi ha un minimo di memoria, ha prodotto una reazione di irritazione, e non di divertimento, il fatto che ha chiedersi pubblicamente quali mai ragioni potesse avere la Egonu per dire quello che ha detto, ci fosse in questi giorni un ministro che anni fa dava dell’orango alla ministra Kyenge, e condannato per questo. Nel calcio è lo stesso. Non ci si può stupire di quanto accade nelle serie minori, se poi quello del tifo, organizzato in particolare, delle serie maggiori, è un mondo marcio: o almeno sono marce le minoranze esagitate che lo governano. Colluse con l’estremismo politico (spesso neofascista, e dunque razzista di suo), non di rado collegate ad altri ambiti illegali (dallo spaccio di droga alla camorra, dipende dalle regioni), agiscono una violenza che non è solo verbale. Con un intollerabile ritardo – e più per spinta esterna che per consapevolezza propria, purtroppo – i club calcistici cominciano molto timidamente ad accorgersi che non è vantaggioso, molto a meno a capire la responsabilità (dis-)educativa che hanno rispetto alla società nel suo complesso. È ora di aspettarsi da quel mondo parole chiare, ma soprattutto fatti conseguenti. L’isolamento, un Daspo fattuale anche senza aspettare quello della questura, l’allontanamento sistematico dagli stadi, multe salatissime della giustizia sportiva, sospensioni, richieste di indennizzo – e scuse vere, e ad alta voce.
Soprattutto, è inaccettabile che si accampino ancora scuse: come la goliardata, o il fatto isolato. Liliam Thuram, grande campione della Juventus e soprattutto della nazionale francese, oggi con la sua fondazione instancabile educatore proprio sui temi della diversità, di cui è da poco uscito l’ultimo libro (intitolato “Il pensiero bianco. Non si nasce bianchi, lo si diventa”: lettura utilissima non solo per i tifosi, e che suggerirei per le scuole), ha raccontato di quando, giocando in Italia, dopo qualche slogan o parola razzista nei suoi confronti, venissero i compagni negli spogliatoi, a dirgli qualche frase di circostanza, tipo “non ci pensare” o “lascia perdere”. Come – denuncia giustamente Thuram – il razzismo fosse un problema suo, e non loro. Cosa c’era di sbagliato, in questi comportamenti? Che non dovevano andare da lui, ma dai tifosi, a parlare, e ad arrabbiarsi: dicendolo nelle interviste, raccontandolo nelle assemblee delle società. E questo ancora manca. E ha un nome: codardia, anche se viene derubricato a inconsapevolezza, che comunque non è innocente.
Basta con le minoranze rumorose che sporcano gli ambienti, frequentati da maggioranze che la pensano e agiscono diversamente, ma umiliate sistematicamente da questa voce che li sovrasta. Si agisca. Con il solo linguaggio che possono capire (o forse nemmeno, ma saranno costretti a subire). E il mondo, anche quello del calcio, sarà migliore: per tutti.
La paura di dire razzismo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 febbraio 2023, editoriale, p.1