Fine vita: discuterne seriamente, non con slogan
È triste che le discussioni sul fine vita ricadano nella consueta logica binaria (giusto/ingiusto, buono/cattivo, vero/falso, e nel caso di specie vita/morte) che portano a schierarsi prima ancora di cercare di capire. Perché il problema è innanzitutto quello di definire il problema. Non si tratta di abbreviare la vita o anticipare la morte: ma precisamente di definire che cosa è vita e che cosa è morte. Per questo dovremmo rifiutare con fastidio e persino con indignazione e scandalo chi si autopropone come pro vita, come se altri fossero pro morte. Se siamo adulti ragionevoli, almeno (purtroppo, ascoltando taluni politici e opinionisti, è lecito dubitare che lo siano: probabilmente è anche questo uno dei casi in cui il senso comune è più avanti di chi pretende di rappresentarlo).
Proviamo ad approssimarci alla definizione del problema. L’aspettativa di vita di ciascuno di noi si è allungata enormemente, e in un secolo è praticamente raddoppiata. Il problema è che l’allungamento degli anni in buona salute non è proporzionale all’allungamento della vita, e anzi la sproporzione cresce continuamente. Forme di malattia, di decadimento e di sofferenza una volta rare e inusuali sono oggi esperienza diffusa, quasi di massa. Il che significa che la parte finale della vita (spesso anni, talvolta decenni) diventa per molti sempre più difficile, dolorosa, onerosa, in qualche caso insostenibile: più un’agonia (che in greco significa lotta, faticosa e dall’esito incerto per definizione), che un sereno andarsene. La medicina (più correttamente: la tecnologia e la chimica applicate massicciamente al bios) ormai può tenere in vita indefinitamente un corpo: ma, appunto, è vita?
Come rispondeva il cattolicissimo filosofo Giovanni Reale ai cattolici troppo facilmente e facilonamente schierati imbracciando le loro certezze pro vita come armi, se un corpo è tenuto in vita da una macchina, e in grado di vivere solo grazie ad essa, sostenere questa scelta è una sacralizzazione della tecnica, non della vita. E, aggiungiamo noi, sancisce l’estensione del dominio della malattia, che ha la stessa radice etimologica del male e del maligno, sulla vita. Non a caso le cose sono più complicate di così, e gli schieramenti non sono affatto cattolici (o religiosi) contro laici: già ai tempi del caso Englaro l’opinione pubblica interna ai vari gruppi si suddivideva pressappoco a metà.
C’è in gioco una questione fondamentale di dignità della vita e di libertà di scelta, e dunque di chi ha il diritto di decidere e di disporre del proprio corpo, e di quello di chi non è (più) in grado di decidere per sé stesso. C’è una doverosa questione da porsi sulla naturalità o artificialità (o artificiosità) delle nostre scelte: così come c’è un ritorno al cibo e pure al parto naturale, non si vede perché non dovremmo avanzare una riflessione anche sulla morte naturale; evento escluso ormai dal nostro orizzonte domestico e ancor più medico-ospedaliero (per il quale la morte deve avere per forza una causa, come se non appartenesse alla natura l’idea che la vita ha anche una fine), ma che pure allude a una dimensione profonda, che dovrebbe farci riflettere anche sul riportare la morte a casa, in un orizzonte familiare, anziché ospedalizzarla per forza, anche quando non è né utile né necessario. Ma è giusto pure parlare di costi, economici e morali (e bisogna che qualcuno si assuma il coraggio civile di dirlo): ormai, per ciascuno di noi, il grosso della spesa sanitaria è speso negli ultimi anni, per tirarla in lungo, per così dire, talvolta fino all’estenuazione, non per vivere bene, o per migliorare la vita di chi – bambino, giovane, adulto – avrebbe il diritto di viverla meglio. E forse anche su questo dovremmo aprire una discussione: è davvero etico spendere sempre di più, talvolta indebitando famiglie o costringendole a scegliere tra le spese per i figli e quelle per i genitori, per allungare una vita, o talvolta un suo simulacro, di qualche settimana, mese o anno? Certo, quando non si può più guarire si può ancora curare, prendersi cura. Ma questo non vuol dire allungare indefinitamente agonie spesso protratte per volontà dei parenti di non lasciar andare i propri cari che per desiderio di questi ultimi: semmai accompagnare la vita che è rimasta dandole un senso, più che una durata maggiore – dare vita al tempo (rimasto), non tempo a una vita che forse non è più tale.
Fine vita, il binario sbagliato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 novembre 2023, editoriale, p.1