Tra erranza e stanzialità: nuovi nomadi, sedentari, migranti
Non si capisce una barca con cento migranti che galleggia precariamente nel Mediterraneo se si guarda una barca con cento migranti che galleggia precariamente nel Mediterraneo. Per capire di cosa si tratta veramente, bisogna guardare al contempo più da lontano e ancora più vicino: guardare cosa succede in Africa e in Europa, a Lagos o a Bruxelles (dal punto di vista demografico, economico, sociale, politico, ambientale…), da un lato, ed entrare nella testa, nel corpo e nei sogni di qualcuno di quei migranti, e nella vita di chi si ritroverà ad avere a che fare con loro, dall’altro. Solo così potremo sperare di capire qualcosa, almeno qualcosa, di quel fenomeno che chiamiamo migrazione (spesso aggiungendovi una caratterizzazione enfatica: emergenza, dramma o quant’altro), considerandolo come un qualcosa di definito e autoesplicativo, mentre invece implica un insieme molto ampio di fattori, tra loro interrelati. È dalle loro interconnessioni, infatti, più che dall’approfondimento di ciascuno di essi, che possiamo sperare di capire qualcosa di quanto sta succedendo intorno a noi, compresa quella barca che galleggia precariamente nel Mediterraneo. Ed è quindi dalla stanchezza per le spiegazioni monocausali, inevitabilmente insoddisfacenti (pur venendo da trent’anni di frequentazione e studi sui movimenti migratori), che sono partito per cercare di costruire un ragionamento più ampio e inevitabilmente complesso, che ho riassunto in Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento (UTET, 2021), concepito fin dal titolo in pieno lockdown, per cercare di capire come e verso dove ne saremmo usciti.
Non si capiscono infatti le migrazioni se non le intrecciamo ad altre forme di mobilità: delle informazioni, del denaro, delle merci, ma ancora più le tante mobilità umane che ci caratterizzano dalla preistoria ad oggi. Quelle che hanno spinto i nostri antenati Sapiens ad abbandonare l’Africa per mischiarsi in Medio Oriente con i Neanderthal e popolare l’Europa, e che hanno fatto del nomadismo una costante della storia umana – la sua fisiologia, non la sua patologia, la norma, non l’eccezione: se facessimo pari a 24 ore la storia dell’umanità siamo stati nomadi per 23 ore e 55 minuti, secondo più secondo meno (cacciatori e raccoglitori prima, poi pastori, solo recentemente – dalla rivoluzione neolitica – contadini e infine oggi maggioritariamente urbanizzati, e da lì di nuovo potentemente mobili). Quelle che sono così tanta parte del mito e della religione: da Odisseo all’hijra (migrazione) verso Medina di Muhammad, passando per la Bibbia – la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden (il primo potente push factor della storia), Caino ramingo e fuggiasco sulla terra, Abramo, Mosé, la predicazione itinerante di Gesù, l’instancabile attivismo cosmopolita di Paolo, lo spirito missionario, i pellegrinaggi… Quelle che sono tanta parte della storia: invasioni, esplorazioni geografiche, colonizzazioni, imperialismi. Quelle che hanno portato il turismo, almeno fino allo stop indotto dal Covid, ad essere settore trainante dell’economia globale (che da solo produce oltre il dieci per cento del PIL e dell’occupazione, crescendo a ritmi superiori al commercio mondiale). Quelle che ci coinvolgono in tante altre forme di mobilità: per lavoro, studio, eventi globali (mostre, expo, campionati, olimpiadi, concerti…), innescate da fattori di spinta come guerre e carestie, catastrofi naturali e indotte dall’uomo come quelle climatiche, urgenze missionarie o campagne militari, fino ai pendolarismi urbani (ripartiti in più ondate quotidiane, legate al lavoro, allo studio, agli acquisti, alla socialità e ai consumi culturali), agli esodi agostani, ai week-end fuori porta, alle serate itineranti, testimonianza della nostra connaturata irrequietezza.
Ma non si capiscono le migrazioni, in ingresso e in uscita, nemmeno se non le colleghiamo ad altri fenomeni, a cominciare dalla demografia, per continuare con le trasformazioni nel mercato del lavoro, il livello di istruzione, l’ambiente, e altro ancora. Le migrazioni non avvengono nel vuoto pneumatico: sono un pezzo di trasformazioni più ampie, al contempo causa ed effetto di un cambiamento globale in corso.
Il Covid è stato una meravigliosa occasione per prendere coscienza di tutto ciò. Nato da un paradosso, allo stesso tempo ironia e nemesi – un virus che ci ha bloccati perché si è messo a circolare lui, costringendo all’immobilità un mondo abituato a correre senza domandarsi perché – ci ha obbligati ad accorgerci di due cose, tra loro contraddittorie ed entrambe assai significative. La prima è stata la scoperta, grazie al lavoro da remoto (chiamarlo smart working è una concessione eccessiva: molto di esso è assai meno smart, o molto più nonsensical, di quanto ci piace pensare), e in fondo anche grazie alla didattica a distanza, che molta della nostra mobilità abituale era perfettamente inutile quando non dannosa e creatrice anziché risolutrice di problemi. La seconda era che, comunque, non vedevamo l’ora di rimetterci in moto, di ripartire, di tornare a percorrere le strade del mondo.
Libertà di migrare. Libertà di non essere obbligato a migrare.
I fermi obbligatori, i lockdown prolungati, le chiusure delle frontiere, ci hanno costretto a una situazione di immobilità involontaria. Ci siamo accorti che molte delle mobilità cui eravamo abituati, e che consideravamo necessarie, si sono rivelate superflue. Ma anche quanto la mobilità ci sia in sé necessaria. È il paradosso del Covid: il virus si è messo a viaggiare al nostro posto, costringendoci all’immobilità – condizione ideale per riflettere sulle ragioni della mobilità.
Siamo nati nomadi, e lo siamo stati per gran parte della nostra storia. Quando i nostri antenati Sapiens hanno lasciato l’Africa, da cui tutti proveniamo, e una migrazione dopo l’altra hanno abitato il pianeta, eravamo ancora cacciatori e raccoglitori che si procuravano il cibo spostandosi, poi pastori, e solo molto lentamente (e molto recentemente) siamo diventati stanziali, con l’invenzione dell’agricoltura, poi con l’urbanizzazione, che oggi coinvolge oltre la metà della popolazione mondiale. Siamo pronipoti di raccoglitori e cacciatori, e poi di pastori, prima che di contadini e poi di cittadini. Per questo, come diceva Bruce Chatwin, il nomadismo è nel nostro DNA, o almeno nella nostra memoria storica, nel nostro inconscio individuale e collettivo, e nella nostra esperienza passata, presente e futura, se è vero che oggi abbiamo ricominciato ad essere mobili, e lo siamo in misura maggiore rispetto ai nostri genitori e ai nostri nonni.
Partire da questa constatazione può aiutarci a mettere le basi di una teoria della mobilità: che includa il nomadismo, il desiderio di viaggiare, la brama di conoscere, i tanti complessi motivi che ci spingono ad andare altrove (magari solo per un poco, come nel turismo, o nelle serate fuori porta), ma anche le migrazioni, in entrata e uscita, e le loro nuove forme. C’è un filo che lega il ruolo del viaggio nelle mitologie e nelle religioni (pensiamo, nella Bibbia, ad Adamo ed Eva cacciati dall’Eden – il primo push factor – passando per Mosè e l’Esodo, fino all’incessante attività missionaria di Paolo), per arrivare, dopo l’età delle scoperte geografiche e delle colonizzazioni, alle migrazioni moderne, fino agli scambi Erasmus e ai giovani expat che lasciano l’Italia, oggi in numero superiore agli immigrati (non c’è alcuna invasione in corso: semmai un’evasione…): a testimoniare una circolarità globale che riguarda tutti i paesi (la Germania, per dire, primo paese europeo per arrivi di immigrati, è anche il primo per partenze).
Ma non si capisce la spinta all’erranza se non si affronta il suo contrario, il radicamento, la stanzialità: i due poli tra cui continuamente oscilliamo, talvolta scegliendo con decisione uno dei due, più spesso vivendoli entrambi, in momenti diversi della nostra vita, e persino contemporaneamente, vagheggiando l’uno mentre sperimentiamo l’altro. Anche le migrazioni vanno contestualizzate all’interno di questo quadro più ampio, ma comprese nella loro specificità, e quindi gestite – cosa che abbiamo smesso di fare quando abbiamo chiuso le frontiere all’immigrazione regolare, gettando le basi per l’esplodere di quella irregolare. Le frontiere non sono muri, sono modi per controllare i passaggi. Per questo governare le migrazioni si può: dunque si deve, nell’interesse nostro e dei migranti (quelli che vengono, e dovrebbero venire in altro modo, e quelli che vanno). Le analisi e le ricette ci sono. Quella che manca è la lucidità politica di volerlo fare: perché è più facile agitare il problema per acquisire consenso, o non affrontarlo per paura di perderne, senza analizzare vantaggi e svantaggi, costi e benefici, individuali e di sistema. È più semplice immaginare per gli altri respingimenti universali, muri e isolazionismi (per i quali pagheremmo un prezzo enorme), pretendendo al contempo per noi il diritto ad andare liberamente ovunque, senza accorgerci della contraddizione – senza nemmeno percepire quanto, quella relativa al diritto alla mobilità, sia una delle nuove forme della diseguaglianza.
Il Covid ci ha illuminati anche su altro: il nostro stesso rapporto con l’alterità. Il virus è stato anche questo: il nemico che veniva da lontano, l’immigrato indesiderato, l’irregolare da cui proteggersi, il clandestino che mette a repentaglio le nostre sicurezze, l’invasore che devasta a caso. E quindi capace di rinviare alle nostre pulsioni più profonde – e irrisolte – proprio intorno al tema cruciale della diversità, dell’estraneità, dell’alterità. Di cui ci ha aiutato a vedere le contraddizioni. E i modi per scioglierle. Perché, banalmente, se davvero vogliamo garantire la nostra possibilità e libertà di muoverci, di tornare a percorrere le strade del mondo, e incontrare altre persone, dovremo in qualche modo gestire e garantire anche quella altrui: con le regole e le cautele necessarie, come in ogni viaggio, e in ogni incontro con l’altro che esso implica. Peraltro, questo riguarda sia chi viaggia, sia chi incontra i viaggiatori: ormai l’altro si ha sempre più occasione di incontrarlo anche restando fermi. Per questo è indispensabile rifletterci sopra.
Passato e presente della mobilità umana, in “Vita e pensiero”, n.1, 2022, pp. 53-57