Senza più patria. In cerca di comunità.
Lo stato-nazione è in crisi. Come ogni cosa, vive dei cicli: nasce, cresce, si sviluppa, muore. Anche le istituzioni. Noi ci eravamo abituati a considerarlo eterno: perché in nome dello stato nazione abbiamo vissuto intensamente gli ultimi due secoli, in suo nome si sono prodotte emozioni individuali e collettive che hanno lasciato il segno nel nostro immaginario e nella nostra cultura (letteratura, filosofia, musica, poesia, pittura, cinema: tutto si è mobilitato in suo nome, non solo la politica), in suo nome abbiamo lottato, compiuto sacrifici immani, ucciso. La sua storia si intreccia con la storia stessa della modernità: anche attraverso la sua paradossale universalizzazione. Fino alla nemesi che ci ha portato a inventare una Società delle Nazioni, e poi una Organizzazione delle Nazioni Unite, con lo scopo – non raggiunto, probabilmente irraggiungibile – di mettere pace tra di esse, dopo tanti anni di guerre: prima per instaurare gli stati nazionali, poi per farli combattere tra loro.
Con lo stato-nazione – anche per la coincidenza con altri sviluppi storici e altri miti collettivi – è nata la massa, e l’ambizione dell’omogeneità interna: la leva universale per prima, che trasformava ogni uomo, obbligatoriamente, in un soldato al servizio della nazione. Poi sono arrivati, dopo i costi, anche i benefici. La scolarizzazione di massa – che anch’essa, dopo tutto, doveva servire a meglio servire lo stato. E poi il suffragio universale. E il welfare per tutti, universale anche lui (ed è significativo questo abuso della parola universale per definire dei diritti – e doveri – attribuiti solo ad alcuni in particolare: i cittadini di quello specifico stato, i membri di quella nazione). Fino alla crisi odierna (dello stato-nazione, e dei suoi sottosistemi), che ci ha fatto accorgere che sotto il manto dell’universalità dichiarata stavano ricrescendo i particolarismi reali.
Con la crisi dello stato-nazione si è persa anche l’idea di patria come di una comunità-rifugio che identificherebbe il nostro noi di riferimento. Quasi fosse un prolungamento naturale della nostra identità individuale, della nostra personalità. Niente di più innaturale, invece: un prodotto culturale qualsiasi – storicizzabile, a tempo, come tutti. Probabilmente è un bene: si perde il suo aspetto burbero, severo, un po’ ottuso, minaccioso e talvolta impietoso – patriarcale, paternalistico e padronale a un tempo. Ma siamo rimasti orfani. Niente di veramente solido l’ha ancora sostituita, la patria. Nemmeno una matria materna e accogliente, come avremmo potuto forse auspicare, in un’epoca di recupero di ruolo e di potere del femminile, dopo secoli di dominio incontrastato del maschile. Oggi siamo in between, in una terra di mezzo, non sappiamo tra quali mondi. Sappiamo da dove ci siamo staccati, e non ne abbiamo alcuna nostalgia. Ne conosciamo – e ne abbiamo pagati troppo cari – i difetti. Ma non sappiamo dove stiamo andando, né se stiamo veramente andando da qualche parte, o semplicemente le cose accadono, senza che alcuno le progetti o le persegua. Per cui ci ritroviamo – anche in politica – membri di socialità elettive, di tribù occasionali, secondo convenienza, o passeggero interesse, e con sempre meno stabilità, per sempre meno tempo: micro-nazioni, sub-stati alla ricerca di una petulante e spesso ineffettiva autonomia; e al contempo, grandi livelli non ancora veramente federali, come l’Unione Europea, oggetto di odio e amore, comunque incapaci – per ora – di suscitare patriottismo. Né sappiamo se è giusto, vivere così: senza un noi collettivo che ci coinvolga davvero tutti. Però è così.
La patria è morta: pace all’anima di chi è morto per essa. Ora ci tocca trovare con cosa sostituirla. E come ri-orientare il suo tesoro principale: quella riserva di solidarietà, di generosità, di potenzialità inespressa – spesso perversa ad altri fini – che con naturalezza assurda e malriposta, e tuttavia reale, i nostri avi chiamavano amor di patria. Che, come tale, sarebbe un delitto buttare via. Che possiamo spendere in altre cause, anche cosmopolite, sovranazionali. Sapendone, tuttavia, l’ambiguità: lo sono molte cose (dalla difesa dell’ambiente al terrorismo religioso), ci chiedono lo stesso impegno, ma non hanno lo stesso valore.
Senza Patria, in “Confronti”, n. 2/2020, p. 34, rubrica “Il mondo se”