Meriem: quando la stampa diventa un'arma

Domenica 21 febbraio. Il Gazzettino pubblica a tutta (prima) pagina il seguente titolo: “Padovana nell’Isis: sono pentita”. Sottotitolo: “Drammatica telefonata alla famiglia: ‘Vorrei fuggire ma gli uomini del Califfo mi ucciderebbero’”.
Il titolo già dice perché la notizia c’è. Il sottotitolo, perché non si sarebbe dovuto darla. Un atto, a mio parere, di cinismo estremo: deontologicamente problematico, umanamente inaccettabile. Al quale il giornale dedica interamente anche le pagine due e tre. Ripreso il giorno dopo da tutti i principali quotidiani nazionali, ovviamente, con maggiore o minore spazio, visto che la delicatezza della cosa viene colta.
Ne ho discusso domenica stessa con il direttore del “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, Alessandro Russello. So che non usa criticare i concorrenti, e non è questo il mio intento. Ma la cosa è troppo grave, in sé, a prescindere da chi ha dato la notizia: e chiedo di intervenire. Concordiamo, dopo le doverose verifiche del caso: un testo contro la pubblicazione, un testo a favore. Da antico giornalista professionista, capisco l’esigenza di dare la notizia, laddova notizia c’è. Ma da persona che da molti anni riflette su queste cose, mi pongo anche altri problemi.
Di seguito, il testo contro: il mio.
“Domenica 21 febbraio. Un giornale dà la notizia che Meriem Rehaily, diciannovenne di Arzegrande, fuggita nel luglio scorso per arruolarsi nell’Isis, ha telefonato ai familiari dicendo che è pentita e vorrebbe rientrare in Italia, ma teme per la propria vita perché il Califfato potrebbe ucciderla.
Riflessione uno. Cosa significa dare questa notizia che, a rigore, dovrebbe essere a conoscenza solo dei Carabinieri dei Ros, che l’hanno intercettata, e degli uffici del Procuratore aggiunto antiterrorismo di Venezia? Solo una cosa: rischiare di condannare a morte la ragazza. Cosa significa dirlo, aggiungendo che si è attivato un protocollo per salvare la ragazza? Oltre al danno, la beffa dell’ipocrisia.
Riflessione due. E’ assolutamente evidente che una notizia di questo genere non sarebbe mai dovuta uscire dagli uffici che l’avevano: e qui qualcuno ha evidentemente delle responsabilità, tra gli inquirenti. Nel silenzio, non solo si sarebbe potuta salvare più facilmente la ragazza: ma si sarebbe potuto indagare sui suoi contatti, individuando altre responsabilità e complicità. Si sono così danneggiate grandemente le indagini, mettendo inoltre in serio pericolo di vita la ragazza: un’operazione a perdere, in tutti i sensi.
Riflessione tre. Il giornale che l’ha data in esclusiva, si assume la medesima responsabilità. A cui si aggiunge lo spiacevole sospetto che ciò accade anche perché, dopo tutto, si tratta di una marocchina: non siamo affatto sicuri che se si fosse trattato di una cittadina italiana il comportamento sarebbe stato il medesimo, e non si sarebbero utilizzate le dovute cautele – anzi, siamo abbastanza sicuri del contrario. Il tutto comporta un problema deontologico grosso come una casa: se un Ordine dei giornalisti esistesse davvero, e non solo per riscuotere la tassa annua di iscrizione, dovrebbe intervenire con urgenza a sanzionare tale comportamento.
Riflessione quattro. Non c’è alcun dubbio che, a questo punto, fatta la frittata, sia necessario e doveroso parlarne, o quanto meno impossibile non farlo. Adesso, e solo adesso, che nel Califfato saranno tutti bellamente informati della questione, è la strategia della pubblicità quella che sola si può percorrere. Con quali favorevoli prospettive, ci sentiamo di dubitare: non pare che il Califfato si sia preoccupato un granché degli eventuali danni d’immagine che potrebbero derivargli, in questi anni.
Pensiero conclusivo. Quella dei ‘pentiti’ di Daesh è questione aperta, in Europa. Con molti paesi, con capofila la Gran Bretagna, in cui il ritorno è di fatto impossibile, perché le leggi approvate implicano il carcere, con condanne pesanti. Altri paesi, come la Danimarca e altri paesi scandinavi, li utilizzano invece come testimonial del male che il Califfato rappresenta, anche agli occhi di chi l’ha raggiunto volontario, per parlare nei quartieri a rischio, nelle scuole, alla tv. Ci sembra questa la strategia più intelligente. Entrambe in ogni caso migliori della morte del potenziale pentito direttamente là dove si trova…”
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Posto qui volentieri anche l’intervento a favore della pubblicazione, scritto dall’amico Giovanni Viafora, bravo giornalista del “Corriere” (onore anche al fatto che il giornale per cui lavoro non utilizzi la cosa per sparare sulla concorrenza: al contrario…). Resto della mia opinione, ma credo sia giusto nutrirsi di opinioni diverse. Il dibattito è aperto.
“Quello di Meriem è un dramma.  Già adesso, già ora. Senza bisogno  di pentimenti, di ritorni, di ulteriori lacrime. Un dramma consumatosi nell’attimo in cui la giovane studentessa di Padova ha varcato  la porta di casa, prendendo la rotta della guerra santa. Non rimarrebbe che restarsene in silenzio, invocando pietà. Ma  la questione qui è un’altra. Ed è questione di principio, dirimente, che a ben vedere non riguarda solo noi giornalisti; ma forse l’approccio intero a questa nuova, orrenda guerra.  Riportare o no quel sussurro arrivato dalla Siria, fragile come un’onda gravitazionale,  in cui la giovane foreign fighter  chiede (avrebbe chiesto) aiuto alla famiglia, mostrando il desiderio  di ritornare a casa? Non è facile. Solo a pensare a quella ragazza e al tormento che divora suo padre, vengono le vertigini.  Ma io credo che, sì, il giornale abbia fatto bene a riportare quel drammatico, rischiosissimo pentimento. E per una ragione: che in questa nuova guerra fatta di proselitismo e di ideologia, di fascinazione e di anime rubate, quel sussurro da Raqqa può assumere la forza di un grido. Arrivando dritto al cuore di chi cammina sul filo. È un’arma, una nostra arma, che può valere più di cento bombe. Ancora più forte, proprio perché viene da dentro. La questione può spiazzare, certo. Ma forse solo chi  non conosce (o non vuole conoscere) il nemico, il cui modello di totalitarismo, ormai è chiaro,  si fonda sui pilastri della violenza, dell’indottrinamento e  dell’espansione territoriale. Indottrinamento, appunto. Moltissimi  giovani,  ventenni, ma anche teenager, subiscono la fascinazione del combattimento come avventura. Della fuga che riempie la vita. Attratti da una strategia di reclutamento che è tanto cinica quanto  spietata. Un vero «marketing dell’apocalisse» – per riprendere il titolo del bel libro di Bruno Ballardini -, che si serve dei più moderni strumenti della tecnologia, social network in testa,insinuandosi nella nostra democrazia digitale. Così oggi il canto delle sirene, che cattura e uccide,  proviene da Facebook e Twitter. «Non sarò mai in grado di descrivere a parole quanto stia bene qua –  scriveva per esempio Umm Layth, che su Twitter si presentava come la moglie inglese di un mujaheddin dell’Isis –  Allah Akbar, è impossibile descrivere ciò che si prova ad aspettare, con le sorelle, notizie da un marito martire». Parole sottili e ammalianti, assorbite dalle migliaia di Meriem sparse nell’Occidente. Una «terza generazione del jihadismo», come l’ha definita Gilles Kepel, professore di Science Po a Parigi (dopo la prima generazione  degli anni Ottanta che comunicava con il fax e la seconda del Duemila, che si fondava sui satelliti di Al-Jazeera), che attraverso i social sta subendo il fascino  dell’Isis. «Un po’ come il comunismo con la sua proposta di avvenire radioso – per citare sempre Kepel – o il movimento del ‘68 quando i giovani inseguivano i modelli alternativi». È a questa generazione che dobbiamo la pubblicazione dell’invocazione disperata di Meriem. Un‘epifania, che squarcia il velo. Come fosse  una cera che tappa le orecchie,  respingendo il canto mortale delle sirene.”
Perché tacere, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 23 febbraio 2016, editoriale, p.1
Perché scrivere, di Giovanni Viafora, idem