Il 17 aprile, al referendum… (un contributo alla discussione)
Il 17 aprile si vota il referendum sulle trivelle. Più o meno. Un voto che mi pare su dei simboli, più che su dei valori. Su cui c’è relativamente poco dibattito pubblico e poco interesse. Ho provato a cercare le ragioni di una distanza e di uno scetticismo che mi paiono diffusi e palpabili: del fatto che questo referendum, a differenza di altri del passato, non scalda il cuore, e non spinge all’impegno. Ho provato a ragionarci. Sgombrando il campo da ogni manicheismo, e senza accusare nessuno: entrambe le posizioni hanno delle ragioni e dei torti. Qui propongo le mie riflessioni. Dissonanti, forse, rispetto agli schieramenti costituiti.
I promotori (nove regioni italiane: per la precisione Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise – altre, invece, e tra queste regioni turistiche e costiere, come Emilia-Romagna, Toscana, Friuli Venezia-Giulia, Lazio, Sicilia, Abruzzo, sono contrarie, o semplicemente non hanno ritenuto di intervenire in proposito) chiedono che, votando sì, il popolo impedisca il rinnovo delle concessioni attualmente esistenti per l’estrazione di gas e petrolio all’interno del limite delle 12 miglia marine.
Già oggi, peraltro, la legge impedisce di concedere nuove concessioni alle società interessate (dopo gli interventi, di cui si è tenuto conto, proprio delle regioni e dei promotori dei quesiti referendari). Il problema è quindi oggi solo se rinnovare quelle esistenti, se alla loro scadenza saranno ancora produttive, o smantellarle, nonostante siano ancora produttive.
Un quesito molto tecnico, quindi, che poco si presta a referendum, e a una decisione meditata sul merito. Ma prendiamolo per quello che è.
La vittoria del sì farebbe aumentare il fabbisogno di importazione di queste materie prime (le concessioni coprono l’1% del fabbisogno petrolifero italiano, e il 3% di quello di gas, secondo Legambiente, che appoggia il referendum – poco, ma più di niente). Al contempo, sostengono i promotori, spingerebbe verso un maggiore investimento in energie rinnovabili. Il legame tra le due cose, certo auspicabile, e che sottoscrivo, non appare tuttavia stringente: più un auspicio inverificabile che un dato incontrovertibile.
I contrari al referendum sospettano inoltre che dietro ci sia il desiderio – legittimo, ma discutibile – di alcune regioni di evitare la centralizzazione di alcune decisioni di politica energetica nazionale.
Provo ad affrontare, dal mio punto di vista, del tutto soggettivo, le questioni che si pongono: quella ambientale, quella occupazionale, quella economica e quella democratica.
La questione ambientale è seria, e al contempo mi pare dibattuta. Non c’è dubbio che la presenza di trivelle produce inquinamento, e che se non ci fossero sarebbe minore. Negarlo sarebbe ridicolo. E questo è, indubbiamente, un argomento a favore dei promotori del referendum. Il fatto è che vale per qualsiasi altra cosa: per qualsiasi complesso industriale, per qualunque polo logistico (i porti, ad esempio), per tutto, insomma. Certo, se non ci fossero, sarebbe meglio, sul lato dell’inquinamento (ma forse non da altri punti di vista). Ma ogni decisione (inventarsi un’azienda, aprire un negozio, ma anche accettare un impiego pubblico, e magari fare un figlio, per dire…) ha degli effetti secondari sgraditi, in termini di inquinamento del pianeta: il lavoro serio è quello di contemperare le esigenze e i progetti. Cosa che, grazie all’ambientalismo, in questi decenni si è cominciata a fare. Nello specifico, non tutti danno per scontato che la contraddizione ambientale, e anche quella economica ad essa collegata (trivelle vs turismo, ad esempio) sia così stringente: la regione Emilia-Romagna, che è quella che realizza guadagni maggiori nel comparto turistico, ha decine di trivelle nel mare prospiciente la costiera adriatica, e non è tra i promotori del referendum… E al contempo appare comprensibile ma contradditoria la posizione della regione Sardegna, da un lato tra le promotrici del referendum, e che dall’altro vorrebbe un nuovo gasdotto dal Nord Africa che consentisse la metanizzazione dell’isola. Non ho risposte univoche, o certezze granitiche. Mi limito a constatare che non mi pare che si possa dire, troppo semplicisticamente, che il sì e il no rappresentino rispettivamente le ragioni degli ambientalisti e quelle degli industrialisti. Le cose sono un po’ più articolate, da ambo le parti.
La questione dell’occupazione è reale, ma per quel che mi riguarda secondaria. So di essere in contrasto con molti oppositori del referendum, a cominciare dai sindacati: ma per me non è dirimente. Se considerassi le attuali concessioni pericolose, non avrei remore rispetto alla loro chiusura: anche perché andrebbero a danneggiare altri comparti produttivi, come il turismo, oltre che l’ambiente. Solo che, ad ora, non c’è stato alcun incidente significativo né alcuna controindicazione specifica, e la produzione in loco evita un po’ di importazione, nonché il rischio di eventuali incidenti e di inquinamento legato appunto all’importazione: dopo tutto, quel po’ di prodotto che si estrae è, per così dire, a chilometro quasi zero, e quindi a impatto minore, come è un assioma in altri ambiti produttivi, a cominciare da quello agricolo (senza contare che una filiera più corta dovrebbe realizzare un risparmio maggiore). Rinunciare quindi agli introiti di tasse e concessioni (rispettivamente 800 e 400 milioni di euro l’anno secondo i contrari), e a circa 10.000 posti di lavoro, nonché a un tot di investimenti tecnologici, e smantellare piattaforme già esistenti (visto che la costruzione di nuove è già proibita per legge), in cambio di un beneficio ipotetico e non quantificabile, pare quindi un vantaggio quanto meno opinabile, se non un controsenso. Tanto più se ci si limita alle 12 miglia: non è che le trivelle oltre quel limite, o nei paesi costieri di fronte a noi, ci immunizzino più che tanto, in caso di pericolo reale. Ed è per questo che è sensato l’allarme ambientalista, e la spinta – che si imporrà, nel medio termine, anche grazie a sempre più stringenti ragioni economiche, non solo ambientali – in direzione delle rinnovabili. A cui sono come ovvio molto favorevole: per quel che vale, anche personalmente, avendo installato a casa mia un impianto fotovoltaico che copre il mio fabbisogno. Nel frattempo, se possiamo risparmiare qualcosa estraendo direttamente ciò che altrimenti importeremmo, mi pare non ci faccia del male. Da questo punto di vista, potessi fare a cambio con la Norvegia, francamente, lo farei: pur continuando a investire sulle rinnovabili, e anzi facendolo meglio, con più risorse a disposizione.
Infine, sul piano economico e strategico, avevo trovato significativa una similitudine introdotta da Prodi già tempo fa. L’immagine è semplice e istruttiva. Immaginiamo l’Adriatico (anche) come un bicchiere in cui c’è una certa quantità di gas e un po’ di petrolio. Un paese, la Croazia, in questo bicchiere ci ha già immerso da tempo la sua cannuccia, che continua ad allargare, aspirando sempre di più; l’Italia, assai meno, e il referendum vorrebbe toglierla quasi del tutto. Non appare, francamente, un’operazione molto sensata. Anzi, per rimanere alle parole di Prodi, pare discretamente assomigliare a “un suicidio nazionale”. Detto questo, è ovvio che dietro ci sono anche consistenti interessi, e che le imprese non agiscono necessariamente per il bene del paese: come, temo, in qualunque altro settore…
Condivido quindi i principi ideali dei promotori del referendum che si sono aggregati alle regioni, come le associazioni ambientaliste. Ma ne vedo assai meno il legame concreto con la vicenda in oggetto. Mi sembra che si sia insomma, a differenza di altri referendum del passato, per i quali ho firmato e che ho sostenuto con il mio voto, sfuggiti al merito, e scelto una direzione abbastanza astratta, generica. Il pretesto, insomma (il referendum), non mi pare rappresenti adeguatamente il problema che si vuole affrontare, quello di una maggiore spinta in direzione delle energie rinnovabili: che va invece coerentemente sostenuto.
Infine, la questione democratica. Questo referendum non si realizza per scelta dei cittadini, che non sono stati consultati e tra i quali, a differenza dei referendum del passato, non sono state raccolte le firme (ciò che presuppone un dibattito popolare e coinvolgente), ma per iniziativa di istituzioni percepite altrettanto distanti dei governi, quali le regioni, e per motivi non sempre del tutto trasparenti (tra i capofila si trova la Puglia di Michele Emiliano, che si candida a leader alternativo all’attuale primo ministro; altre regioni, a guida leghista, sono avverse al governo). In nessuna delle regioni si è davvero, anche solo indirettamente, coinvolto il corpo elettorale nella richiesta di un parere. In Veneto, ad esempio, né la Lega ha coinvolto le sue sezioni né il PD i suoi circoli, né il M5S la sua rete (figuriamoci quanto è stata coinvolta la pubblica opinione non vicina ai partiti); e, di fatto, quello che è accaduto è che le opposizioni, senza un vero dibattito sul merito, semplicemente per non lasciare alle forze di governo una bandierina astrattamente ambientalista, si sono accodate al governo leghista della regione, senza convinzione e in qualche caso senza essere intimamente d’accordo. Ci sfugge dove sia la sostanza della democrazia, in questo meccanismo, pure legittimo; e dove sia quindi il vulnus ad essa, in caso di non partecipazione al voto. Mentre è un problema a mio parere secondario quello del costo: la democrazia ha un costo, che vale la pena di essere pagato. Strumentali quindi le accuse ai promotori di farci spendere dei soldi (il problema è semmai spenderli bene, con quesiti significativi). Così come è strumentale l’accusa di spesa inutile ribaltata sul governo, che non ha voluto l’accorpamento con le elezioni amministrative, che, limitatamente a dove si vota, avrebbe fatto risparmiare qualcosa (in realtà non molto: su oltre 8000 comuni italiani, solo 1.370 andranno al voto, e peraltro in un periodo ampio, tra il 15 aprile e il 15 giugno, non nella stessa data – per cui in gran parte quei soldi si sarebbero spesi comunque).
Tirando le fila del ragionamento, se pensassi che fosse una questione di voto all’ultima preferenza, voterei no sulla questione specifica, pur condividendo le più generali ragioni del sì rispetto alle energie rinnovabili (il problema è appunto qui: che le due cose non sono così direttamente correlate). Tuttavia, so altrettanto bene che, essendoci un gruppo di istituzioni (le regioni) e di militanti (associazioni) a sostegno del sì, e poco o nulla a sostegno del no o dell’astensione, so anche che solo i primi sono motivati a recarsi alle urne: mentre la maggioranza è semplicemente disinteressata e demotiva dal votare intorno a un quesito che giudica irrilevante se non dannoso. Siamo lontani, in questo senso, dai valori ideali in gioco in altri referendum. Per questo motivo mi asterrò dal voto, affermando una scelta democratica conseguente rispetto alle ragioni addotte.
So anche, con questo, di mettermi in una posizione diversa da molti dei miei compagni di molte altre battaglie ideali. Ma credo che sia corretto esplicitare le proprie ragioni. E, nel caso, i propri torti e le fallacie dei propri ragionamenti.