Gli italiani all'estero e il coronavirus

L’emergenza coronavirus coinvolge anche i nostri emigranti: e incide sulle famiglie transnazionali.
Gli immigrati sono sempre tra i primi a pagare il prezzo delle crisi, perché sono presenti soprattutto nelle fasce più deboli e meno garantite del mercato del lavoro. Gli italiani all’estero sono gli immigrati dei paesi in cui risiedono: e pagano il prezzo della medesima situazione.
Molti di quelli che vivono altrove stanno già perdendo il lavoro. A Londra, per esempio, con i suoi seicentomila italiani che ne fanno la sesta città italiana per numero di abitanti, i settori legati alla mobilità e al turismo – in cui operano molti italiani: si pensi alla ristorazione – sono come ovunque tra i più colpiti, e stanno programmando chiusure temporanee. Alcune di esse saranno definitive.
Ma non saranno in molti a tornare: non subito, almeno. Per fare cosa, in un paese in crisi e maggiormente colpito dal virus? I più cercano di barcamenarsi aspettando la ripartenza dell’economia. Come? In questa strana migrazione, in cui già oggi, caso unico al mondo, non sono gli expat a mandare soldi alle famiglie rimaste in Italia, ma il contrario, ci sarà bisogno di maggiore sostegno da parte delle famiglie in Italia, proprio in un momento in cui le famiglie stesse sono di molto impoverite. Si darà fondo quindi al risparmio privato, in Italia più cospicuo che altrove: ma è distribuito in maniera ineguale, e non durerà moltissimo. Non solo: gli iscritti all’AIRE, l’anagrafe degli italiani all’estero, hanno perso l’iscrizione al servizio sanitario nazionale, acquisendo coperture per i residenti non cittadini che in molti paesi sono assai meno protettive o non gratuite. La pandemia li espone quindi a difficoltà, anche sanitarie, maggiori.
La lontananza dalle famiglie e dagli affetti ha un peso sempre. Ma esso si fa più drammatico in tempo di crisi. Tanto più se c’è di mezzo la salute. In tanti non potranno contare sul supporto materiale e affettivo dei propri cari nel momento della difficoltà pratica, ma anche della malattia e ancor più della morte. Leggeremo a breve delle prime famiglie che avranno visto morire i propri cari senza poterli raggiungere: ciascuno vittima del lockdown del proprio paese – ci sarà chi morirà solo, a distanza, per così dire via skype, genitore o figlio che sia, e sarà tremendo.
Complessivamente, ci saranno centinaia, migliaia di persone, un po’ ovunque, in difficoltà: prive delle reti di affettività e supporto primarie, lasciate in gran parte nella madrepatria. Molti potranno affidarsi solo ai nuovi amici, amori, relazioni sociali, spesso poco solide.
Ma ci sono effetti anche d’altro genere, e forse di più lungo termine, legati alla situazione delle famiglie transnazionali. Non aumenterà solo il distanziamento sociale: anche quello nazionale conoscerà nuovi fasti. E con esso torneranno xenofobie e razzismi, in tutte le direzioni, che del resto si sono già manifestate. Se in Italia all’inizio della pandemia il target di alcuni erano i cinesi, nel Regno Unito come nella lontana Australia sono stati gli italiani – a ciascuno i suoi presunti untori, le sue vittime sacrificali.
Più in generale, ci sarà un rallentamento temporaneo della mobilità globale, che toccherà anche le relazioni familiari: le visite ai figli, i loro ritorni a casa, le vacanze insieme, gli anniversari e le ricorrenze – tutta la ritualità temporale delle famiglie transnazionali, che verrà rinviata a data da destinarsi. Si cercherà di arrangiarsi con la prossimità digitale. Ma niente sarà più come prima.
Ritorneranno infatti con rinnovata solidità gli stati nazionali e le frontiere, anzi i muri. E col ritorno delle frontiere sarà messa tra parentesi, per un po’, l’Europa della libera circolazione. Quella attuale è stata forse l’ultima generazione per cui quella di andarsene era un’opzione possibile senza troppi problemi. Quella stagione è finita: almeno per un po’.
L’altra Italia che rischia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 24 marzo 2020, p. 1, editoriale